Saluto dj Fabo seduto davanti alla scrivania del mio studio dopo aver letto della sua morte in un tweet di Marco Cappato: “Fabo è morto alle 11.40” in Svizzera. Lo faccio scrivendogli ovviamente, aggiungendo pochi pensieri a quelli che già avevo espresso nel mio precedente post in cui gli auguravo, come molti altri, di poter essere “libero di scegliere fino alla fine”. Voleva morire Dj Fabo e non per un capriccio, ma per lo stato in cui si trovava: cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale. Anche se al suo fianco aveva la compagna di una vita. Ma era completamente paralizzato e ingabbiato nel suo corpo. Nemmeno più in grado di sentire una carezza di Valeria, la sua voce da quel 13 giugno del 2014.
Fabo è morto alle 11.40. Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo.
— Marco Cappato (@marcocappato) 27 febbraio 2017
Dopo aver portato avanti una campagna mediatica, di non poca importanza, con un commovente videomessaggio indirizzato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la sua battaglia per ottenere la legalizzazione della eutanasia si è conclusa: “Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo”, ha scrive Cappato sempre su Twitter.
Prima di morire Dj Fabo lo ha ringraziato per il suo coraggio. Marco Cappato si è preso la responsabilità (anche penale) di portarlo in Svizzera a morire ed è ben consapevole del rischio che ora incorre tornando in Italia: da cinque a dodici anni di carcere. Ma ha messo in discussione la sua libertà per dare un forte segnale contro l’inerzia del legislatore.
Il caso di Dj Fabo riapre un dibattito che dura da anni e fa tornare alla memoria la storia di Piergiorgio Welby. Entrambi capaci di intendere e di volere e quindi consapevoli della richiesta che facevano. Entrambi in uno stato degenerativo della malattia che ormai era divenuta irreversibile.
Welby intentò una causa civile d’urgenza, senza successo, per ottenere il permesso dal giudice di procedere con l’eutanasia. Finché non trovò un medico, Mario Riccio, che lo aiutò a morire e che, per questo, fu prima indagato e in seguito prosciolto.
Allora come oggi (sono ormai trascorsi più di dieci anni dalla morte assistita di Welby) non esiste una legge né sulla eutanasia né sul testamento biologico. Eppure, quel vuoto legislativo che ancora deve essere colmato potrebbe trovare sponda, come accadde per la sentenza di non luogo a procedere del medico di Welby, nei richiami al dettato della Carta Costituzionale: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e “la libertà personale è inviolabile”.
Quale altra occasione migliore (purtroppo) per affrontare con impegno e serietà le sei proposte di legge sull’eutanasia che sono ferme in parlamento da oltre un anno?
Ti abbraccio Dj Fabo, anche se non ti ho conosciuto personalmente e ti omaggio citando Socrate: “Nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?”.