Compito della storia è avvicinarsi il più possibile alla verità, cercando di contribuire a far luce sui “fatti”, su “tutti i fatti”, anche su quelli non graditi alle posizioni politiche di ciascuno: lo storico non deve né condannare né assolvere né stabilire chi abbia torto o chi abbia ragione, bensì sottoporre a revisione il passato, nella consapevolezza che, come già avvertiva Cicerone, chiunque ignori il proprio passato non ha alcun futuro davanti a sé. Ecco perché ritengo utilissimo che Davide Conti, col suo Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica Italiana (Einaudi, Torino 2017), torni a occuparsi del pervicace rifiuto del nostro Stato di fare i conti con le colpe più indegne e vergognose del proprio passato fascista, consumate sia in patria sia nei vari teatri di guerra, mediante un processo di rimozione collettiva, che ancor oggi, a oltre settant’anni di distanza, appare inconcepibile e sciagurato, forse unico tra le nazioni europee coinvolte nella tragedia dell’occupazione nazista.
Placate le passioni popolari che nell’estate 1945 sostituirono al diritto la vendetta e restaurata l’attività dello Stato, in un paio d’anni tornarono liberi capi dello squadrismo, segretari del Partito nazionale fascista, ministri del regime, persecutori degli ebrei, presidenti e giudici del Tribunale speciale, capi politici e comandanti militari della Rsi, criminali di guerra. Alla giustizia sommaria seguì l’impunità per artefici e protagonisti della dittatura, che dopo avere abbattuto il regime liberale avevano, prima, portato il Paese al secondo conflitto mondiale e, con la fondazione del governo collaborazionista, lo avevano precipitato nella guerra civile. A salvarli furono gli equilibri della Guerra fredda e il decisivo appoggio degli alleati occidentali grazie a cui l’Italia eluse ogni forma di sanzione per i suoi militari. Lo spartiacque nel decisivo passaggio tra dittatura e democrazia, per chiudere i conti con il ventennio mussoliniano e punire gli artefici della dittatura, fu l’amnistia emanata il 22 giugno 1946 per celebrare la nascita della Repubblica italiana e recante la firma del segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, guardasigilli del gabinetto De Gasperi.
Si trattò, per dirla con Piero Calamandrei, di un clamoroso errore della nuova classe dirigente italiana: se enorme è, per un verso, il vuoto di conoscenze sulle dinamiche repressive del regime e della Rsi che venne a determinarsi per il mancato accertamento giudiziario dei crimini fascisti; per l’altro, molti di coloro che beneficiarono del provvedimento di clemenza, reintegrati negli apparati dello Stato come questori, prefetti, responsabili dei servizi segreti e ministri della Repubblica, furono coinvolti nei principali eventi del dopoguerra, quali la strage di Portella della Ginestra; la riorganizzazione degli apparati di forza anticomunisti e la nascita dei gruppi coinvolti nel “golpe Borghese” del 1970 e nel “golpe Sogno” del 1974.
Sebbene approfondite indagini storiche abbiano ricostruito al meglio, nel corso degli ultimi anni, proprio quell’Italia lacerata dalla lotta politica, con cento drammatici episodi riaffioranti dai carteggi giudiziari, meno indagate sono state le vicende personali, i profili militari, i provvedimenti di grazia e le nuove carriere nell’Italia democratica di alcuni tra i principali funzionari del regime di Mussolini. Ed è proprio questa lacuna della storiografia che Davide Conti ha provato a colmare: mediante l’analisi di una gran mole di documenti anche inediti ha tracciato una serie di biografie, che rappresentano esempi significativi del complessivo processo di continuità dello Stato, caratterizzato dalla reimmissione nei gangli istituzionali di un personale politico e militare non solo organico al Ventennio, ma il cui nome, nella maggior parte dei casi, figurava nelle liste dei criminali di guerra delle Nazioni Unite.
Concludendo il suo brillante lavoro, Davide Conti, tenta di arginare il lucido pessimismo di Giorgio Amendola, quando denunciava i “limiti storici dell’antifascismo” e la “profondità delle radici del fascismo”, quali cause della “continuità dello Stato” fascista, “malgrado le indicazioni rinnovatrici della Costituzione”. Tale esito non può dirsi definitivo, prova a consolarci il giovane e valente Autore, nel corso della vicenda repubblicana “parti fondamentali della Costituzione” hanno trovato applicazione e, tra queste, lo Statuto dei lavoratori. Le recenti, disgraziate vicissitudini di quella “conquista”, però, vanificano l’effetto lenitivo dell’iniezione d’ottimismo.