La vittoria della statuetta più pregiata da parte del romanzo di formazione trasporta nettamente le preferenze dell’Academy su un territorio African-American (contestualmente anche LGBT), ancor più deciso di quanto non fece nel 2014 con il trionfo di 12 anni schiavo. E ciò essenzialmente per la diversificazione con cui gli artisti di colore sono stati premiati, ovvero in ben tre film. Avranno forse pesato i 638 nuovi membri di cui il 41% “not white”, o semplicemente un’acuta malinconia di Obama
Iniziata come un musical e terminata come un thriller. La più “black” delle edizioni degli Academy Awards è – finalmente – riuscita a stupirci. Che fosse un incidente reale o una messa-in-scena da reality poco conta: lo spodestamento “fisico” dal palco della vittoria come miglior film – con tanto di Oscar in mano e discorsi pronunciati – di La La Land da parte di Moonlight passerà alla Storia ancor più dei volti premiati. Il favoritissimo e straordinario musical diretto dal 32enne Damien Chazelle (Oscar per lui alla regia, con il record del più giovane vincitore di sempre nella categoria) è passato letteralmente dalle stelle alle stalle, nonostante le sei statuette vinte, siglando metaforicamente il passaggio dal white al black power.
Seppur l’interpretazione dell’incidente di lettura della busta da parte di Warren Beatty possa suonare forzata, alla resa dei conti valgono i risultati definitivi e la vittoria della statuetta più pregiata da parte del romanzo di formazione Moonlight trasporta nettamente le preferenze dell’Academy su un territorio African-American (contestualmente anche LGBT), ancor più deciso di quanto non fece nel 2014 con il trionfo di 12 anni schiavo. E ciò essenzialmente per la diversificazione con cui gli artisti di colore sono stati premiati, ovvero in ben tre film. Avranno forse pesato i 638 nuovi membri di cui 41% “not white”, o semplicemente un’acuta malinconia di Obama, giacché in termini di valori assoluti in campo, fra la qualità dello “sconfitto” La La Land e del trionfatore a sorpresa Moonlight c’è un abisso, senza nulla togliere all’intensa interpretazione di Mahershala Alì (peraltro musulmano), premiato come non protagonista del dramma scritto e diretto da Barry Jenkins, Oscar per il suo adattamento in sceneggiatura. Accanto a Moonlight sono stati iridati Fences (Barriere) di Denzel Washington grazie all’Oscar da non protagonista a Viola Davis e il monumentale documentario O. J.: Made in America.
Ma l’89ma edizione degli Oscar sarà anche ricordata quale la più festosa (inizio folgorante con un Justin Timberlake danzante e cantante che entra dal fondo del Dolby Theater, pubblico in piedi a ballare mentre nel corso della serata piovono caramelle e dolci dal cielo…) e la più aperta agli abitanti del mondo reale, alle Persone Qualunque che improvvisamente si trovano catapultate nel regno dei Sogni. Far sfilare un gruppo di attoniti “turisti per caso” davanti alle star di Hollywood, permettere loro di scattare dei selfie insieme, di abbracciarli e baciarli come fosse la normalità, è stato uno degli affronti più evidenti alla politica di chiusura e di separatismo prodotta dal neo presidente Donald Trump, l’ovvio convitato di pietra della Notte stellare, parecchio sbeffeggiato dal mattatore Jimmy Kimmel anche via Twitter. L’altro smacco è stata l’attribuzione dell’Oscar per il film straniero a Il Cliente del forzatamente assente Asghar Farhadi che, avendo scelto di non accettare permessi speciali per partecipare alla cerimonia, è rimasto a casa in sostegno di chi è colpito dal Muslim Ban. A sostituirlo una concittadina iraniana che ha letto il suo importante messaggio contro ogni tipo di divisione. Al suo pari, un’altra vittima delle nefandezze trumpiste ha alzato la voce: l’attore messicano Gael Garcia Bernal che si è esplicitamente opposto “a qualunque muro separatista di vite e culture”.