Verdetto definitivi per i veleni in procura, le due toghe ritenute colpevoli di abuso d'ufficio. Al centro gli intrecci con avvocati e imprenditori locali, tali da condizionare inchieste e processi
A cinque anni dai trasferimenti per incompatibilità ambientale disposti dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino, la cassazione ha condannato per abuso d’ufficio i magistrati Ugo Rossi e Maurizio Musco, rispettivamente ex procuratore capo e sostituto procuratore di Siracusa.
La vicenda dei ‘veleni in procura’ ha origine dalle denunce del periodico locale, La Civetta di Minerva, e del locale ordine degli avvocati, che avevano segnalato una rete intrecciata di srl in cui figuravano legali, magistrati, imprenditori e loro familiari, che partecipavano attivamente ai processi celebrati in città. Il Ministero decise di inviare degli ispettori per accertare queste commistioni, e nella successiva relazione emerse un “reiterato uso distorto delle funzioni” dei due procuratori che gettavano “pesanti ombre sul prestigio della magistratura”.
La suprema corte ha condannato a un anno l’ex procuratore Rossi, in pensione dopo essere stato trasferito e declassato a Enna, per aver affiancato il sostituto Giancarlo Longo, oggi al centro di nuovi possibili ‘veleni’, a due colleghi che conducevano un’indagine sulla Sai8, azienda che gestiva il servizio idrico a Siracusa, dove il figlio della terza moglie di Rossi era dirigente. Nel provvedimento disciplinare del Csm, l’atto è stato considerato “a tutela degli indagati” e il procuratore capo “preoccupato di proteggere legami familiari e sociali” a “dispetto e discapito” della “corretta ed imparziale gestione del proprio ruolo”.
Diciotto mesi al sostituto Musco, per aver portato a giudizio l’ex sindaco di Augusta Massimo Carrubba e il suo assessore all’ambiente Nunzio Perrotta, poi assolti perché il fatto non sussiste, con l’accusa di tentata concussione e abuso d’ufficio in merito alle autorizzazioni della discarica Oikothen, del gruppo Marcegaglia. Assolti invece l’ex magistrato Roberto Campisi e l’ex ispettore di polizia di Siracusa Giancarlo Chiara, coinvolti in uno dei capi d’imputazione con il pm Musco.
Per molti anni Musco, originario di Priolo Gargallo, è stato considerato il fiore all’occhiello delle battaglie ambientaliste siracusane. Ha portato a processo dirigenti e operai dei gruppi petroliferi Enichem e Montedison, nell’inchiesta ‘Mare Rosso’ terminata con patteggiamenti e prescrizioni. Per due volte ha indagato sulle aziende della famiglia dell’ex ministra Stefania Prestigiacomo, fatti poi prescritti, mentre negli stessi anni era nominato a titolo gratuito in una commissione al ministero dell’Ambiente, sotto la guida della stessa ministra.
Dopo essere stato trasferito a Palermo, da circa un anno il Csm ha assolto e reintegrato Musco a Siracusa, ma il ricorso del Ministero della Giustizia presentato in Cassazione porterà Palazzo dei Marescialli a una seconda valutazione su alcuni passaggi. Tra questi il rapporto d’amicizia ed economico con l’avvocato Piero Amara, già legale di Eni. Uno degli esempi riportati è il contratto di locazione stipulato tra la Panama Srl, intestata al magistrato e amministrata da un ex praticante dello studio Amara, e la Geostudi Srl, riconducibile allo stesso avvocato. Quest’ultimo condannato nel 2009 a 11 mesi di reclusione con pena sospesa, per “rilevazione di segreti d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico”, avendo spinto un cancelliere in servizio alla Dda di Catania a fornirgli informazioni coperte da segreto.
In attesa della nuova valutazione del Csm, si sta celebrando a Messina il processo relativo a un secondo filone d’inchiesta che vede imputato per tentata concussione lo stesso Musco. I fatti sono riferiti al 2007, quando una pattuglia polizia venne chiamata per un controllo notturno in una villa, dov’era organizzata una festa danzante senza autorizzazioni, dove parteciparono il magistrato e l’avvocato. Nei giorni successivi, il pm Musco aprì un’indagine, poi archiviata, contro i poliziotti e originata dalla denuncia del titolare del locale difeso da Amara, in seguito condannato per le mancate licenze.