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Vinicio Capossela: “Il mio tour ‘ombra’ contrapposto alla troppa luce digitale. E con i social anche la politica è diventata spettacolo”

Dopo la notte al teatro di Cascina il cantautore ha concesso a FQMagazine un’intervista esclusiva nell’ora che non lascia ombra sulla terra: "Oggi ci sono un sacco di scatole nere a partire dai telefonini della gente. Poi ci sono ombre più ampie come la paura dilagante che è la produzione di massa più intensiva da parte dell’industria mediatica. Il problema è distinguerle"

di Alex Corlazzoli

E’ riuscito a stare nell’ombra senza farsi ombra. E’ un Vinicio Capossela traghettatore di anime quello del nuovo tour dedicato alla seconda parte del suo disco “Le canzoni della Cupa” composto, proprio come i paesi che fanno da culla a quest’ultimo lavoro, da due lati: quello della polvere e quello dell’ombra. Sul palco del teatro di Cascina, dov’è tornato dopo anni per la data “zero”, Capossela cattura l’incanto del pubblico con un concerto che diventa spettacolo, racconto, danza di ombre, proiezione dell’inconsistente attraverso magici marchingegni e ombrografi che velano fino alla fine dello spettacolo lui con il suo vecchio pianoforte nero e i suoi “cavalieri dell’ombra” armati di strumenti ad arco e a corde. Uno spettacolo così non si era mai visto: “Un viaggio – per usare le parole di Capossela –  in una zona che riconosciamo nel nostro inconscio collettivo che è il patrimonio folclorico perché lì dentro ci sono i mostri che la cultura popolare, prima della psicanalisi, aveva elaborato: il licantropo, la dianara, tutte queste creature della Cupa e anche le nostre clandestinità interiori”.

Senza orologio alla mano, Vinicio, ci conduce a ri-conoscere l’ “Angelo della luce” che cade a testa in giù e si sporca nella vita ma anche il Minotauro, il Ciclope, le sirene che ci trascinano in altri “luoghi” fino a guardaci con lui allo specchio: “L’ombra è in questo caso – spiega il cantautore –  quella di Carl Jung, la parte oscura di noi stessi, la clandestinità interiore, quella zona con cui è bene fare pace dice la psicoanalisi ma lo afferma anche cultura popolare: “Se hai un demone dagli un nome battezzalo e fallo compare”. Un “pellegrinaggio” partito a Cascina che domani sera farà tappa a Torino, per proseguire martedì all’ “Arcimboldi” a Milano e poi il primo marzo all’Europauditorium a Bologna e in altri diciannove teatri fino al 10 aprile a Roma.

Capossela, dopo la notte al teatro di Cascina, a FQMagazine ha concesso un’intervista esclusiva nell’ora che non lascia ombra sulla terra. In una villa dispersa nella campagna di uno di quei paesi della Toscana mai vista dove al bar ti servono ancora il “gottino” di bianco, lo abbiamo incontrato prima di rimettersi in viaggio. E anche stavolta non si può definire un’intervista perché con Vinicio ti ritrovi a parlare del viaggiatore cremasco Giorgio Bettinelli, di notti trascorse nell’incantesimo dell’osteria di Gino a Patù in Salento, del regista Silvio Agosti e di padre Enzo Bianchi. “Chiacchiere” con il sottofondo delle ombre e del canto del gallo.

Come lo racconteresti questo nuovo  tour ad un bambino?
Le ombre sono le cose con cui si inizia a giocare da piccoli. Nel gioco c’è l’infanzia del mondo. Una volta ho letto un bellissimo libro di Roberto Casati che si intitola “La scoperta dell’ombra” e c’era la frase di una bambina di sette anni che diceva: “Se un’ombra più grande copre la mia, la mia c’è sempre perché se l’altra si sposta, la mia rimane”.

Dopo il tour estivo di “Polvere” hai sentito la necessità di fare un viaggio per scoprire l’invisibile che è in noi. Quali sono le nostre ombre oggi, le nostre scatole nere per usare le tue parole?
Se parliamo della contemporaneità Johann Wolfgang Goethe diceva: “Più forte è la luce più cupa è l’ombra”. Questo è un periodo di fortissima luce, ogni cosa è illuminata da una luce digitale, dai pixel. In questa luce immanente il misticismo si traduce solo in una clandestinità diffusa. Ci sono un sacco di scatole nere a partire dai telefonini della gente. Poi ci sono ombre più ampie come la paura dilagante che è la produzione di massa più intensiva da parte dell’industria mediatica. Il problema è distinguerle.

Nella Polis, in politica nessuno vuole stare in ombra.
Louis- Ferdinand Céline l’aveva detta meglio: “In quest’epoca ogni buco di culo si vede Giove allo specchio”. Non penso solo alla politica. Nella fase in cui siamo nell’uso dei social media ognuno nel suo piccolo vive una forma di recessione allo stadio infantile. Un tempo l’opposizione aveva elaborato questa cosa del “Governo ombra”, era divertente. Quando mi chiedono se faccio un tour d’ombra rispondo che in effetti è un tour d’opposizione a quelli che stanno molto in luce. Se vogliamo usare la metafora dell’ombra applicandola anche agli usi e ai costumi della politica bisogna iniziare a capire che stare in ombra non è il non esserci ma è il complemento dell’esserci. Il fatto che tutto si sposti solo nell’apparire rende tutto più squilibrato. La politica oggi è diventata parte della società dello spettacolo.

“Solo i marciti e gli incattiviti non fanno ombra”. Chi sono questi?
La frase che cito durante lo spettacolo è presa dal mio libro “Non si muore tutte le mattine” . I marciti e gli incattiviti sono i rancorosi, quelli alla cui ombra non ci si può riparare. Noi stessi lo siamo.

Fernando Pessoa diceva: “A forza di occuparsi di ombre io stesso mi sono trasformato in un’ombra: in ciò che penso, in ciò che sento, in ciò che sono”. C’è questo rischio per te, per noi?
Mi viene in mente Orazio: “Polvere e ombra siamo”. L’ombra più lunga è quella della morte. Chiaramente siamo destinati a trasformarci in ombra. In questo concerto ho smaterializzato un po’ di cose, ho portato meno chili, ho cercato di fare le cose con meno peso, con più leggerezza, senza quintali di scenografia. Cerco di usare il potere dell’evocazione. Sul palcoscenico generiamo ambientazioni con cose che ci riportano alla nostra infanzia: cartoni, sterpi. La cosa interessante dell’ombra anche nella vita è fare caso al rovescio delle cose: un ribaltamento del punto di vista. Oggi facciamo poco caso all’ombra, abbiamo gli occhi sempre impegnati a vedere le cose in luce.

Dici di non essere credente ma in questo spettacolo c’è molta Bibbia.
C’è anche la Bibbia ma quello che mi interessa molto delle culture arcaiche e greche è la non separazione: il sacro non era relegato ai sacerdoti, alla Chiesa, al libro. La natura era espressione del sacro. Di là della fede in questo o in quel Dio, è qualcosa di innato nell’uomo in cui mi ritrovo più a mio agio. Il fatto di riconoscere una sacralità nelle cose, in generale nella natura, mi fa sentire meno separato dal mondo. Questo aspetto è molto forte anche nella cultura contadina. Il cattolicesimo ha impiantato la “Notte di San Giovanni” ma il solstizio d’estate è da epoche più antiche un punto di passaggio. Amo pensare ad un ancoraggio al calendario, ad un senso del sacro anche nel tempo. Viviamo in una società completamente desacralizzata. Se l’ombra è un modo di completarci anche un certo senso del sacro nell’esistenza è innato e aiuta a completare l’uomo come essere umano.

Se dovessimo dare una definizione di Vinicio Capossela potrei dire che è un cantastorie o forse un monaco che ama “pregare” con le sue canzoni?
I monaci erano anche quelli che facevano le feste. Solo sacrificando le cose poi le si possono profanare. Non ho una definizione. Mi viene sempre in mente chi diceva: “Provengo dal dubbio proseguo verso la verità”. Ma la verità non è conoscibile. Quando Pilato chiede a Gesù cos’è la verità, Gesù tace. Procediamo verso la verità ma verso il mondo della verità.

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