“Comunque vada, da quest’aula oggi uscirà una grande ingiustizia”. Sono le parole che mi ha confidato l’avvocato Rocco Marsiglia, difensore di un imputato, nell’aula del tribunale di Rovigo. La Corte di assise stava per emettere il secondo ergastolo nel processo fotocopia per l’omicidio di Paula Burci. Il legale faceva riferimento a qualcosa racchiuso, nascosto, trattenuto da un’unghia della ragazza.
Quel lembo di Paula racconta tutta la sua storia. Dal rogo del suo corpo minuto si salvò quell’unghia. Ai passanti che rinvennero quella che credevano la carcassa di un animale sarà apparsa come l’estrema appendice di un dito puntato a indicare nel vuoto. Da quel lembo i carabinieri del Ris e la squadra mobile di Ferrara riusciranno a estrarre il dna e dare prima un volto e poi un nome alla vittima di quel massacro.
Immagino quell’unghia colorata di smalto quel giorno, il suo primo in Italia, in cui Gianina Pistroescu – sua prosseneta coimputata dell’omicidio – la portò dall’estetista. Al dibattimento la parrucchiera se la ricordava sorridente. “Il suo volto d’angelo sorrideva come una bambina”. Una nuova acconciatura per una nuova vita. Non quella che Paula credeva. Era fuggita dalla Romania per lavorare come colf. Poi, magari, con un po’ di aiuto, proprio in una salone di bellezza. Quel primo sorriso italiano durerà appena 24 ore. Il giorno successivo era già sulla strada.
Quell’unghia è stata l’ultimo sussulto di Paula, nel momento in cui cercava di proteggersi dai colpi dei suoi carnefici. In un estremo tentativo di aggrapparsi alla vita Paula deve aver graffiato il viso, il braccio o la mano di due dei suoi assassini mentre la perforavano con un forcone, le rompevano i denti a colpi di martello, calci e pugni. Sotto quell’unghia la scientifica ha trovato infatti due tracce di dna. Che non appartengono né a Sergio Benazzo né alla Pistroescu, due degli aguzzini condannati due volte all’ergastolo e nonostante questo ancora liberi.
In quel dito che avrebbe dovuto ospitare un giorno un anello e non l’impronta della morte Paula ci ha lasciato l’unica testimonianza di cui era capace la diciottenne, prima che il suo corpo ancora vivo venisse dato alle fiamme. Lì c’è la traccia genetica di due dei suoi assassini.
L’avvocato Marsiglia si lamentava del fatto che, pur nella consapevolezza di dover cercare un ago in un pagliaio, quel materiale genetico poteva essere oggetto di approfondimenti. Ma la ricerca sarebbe stata dispendiosissima sotto il profilo economico per il nostro sistema giudiziario. E, anche se nella recente storia di cronaca nera di questo paese è stato fatto, in questo caso è abortito persino il tentativo. Forse della tortura e dell’omicidio di una ragazza rumena non frega niente a nessuno.
E allora ci rimane quell’unghia, ancora sepolta con i miseri resti del corpo carbonizzato in una fossa comune a Ferrara. Quell’unghia è stata difesa e accusa. Una difesa strenua e inutile. Un’accusa perenne. A questo punto non rivolta solo ai suoi assassini.