Il limite dei 240mila euro (lordi signora mia!) che la Rai, in quanto servizio pubblico, sarebbe costretta a rispettare persino nei confronti degli artisti, di quelli bassi e di quelli alti, riempie di lacrime le autorità. La presidente della televisione di Stato lo considera un effetto collaterale del populismo dilagante e prevede la prossima sciagura: tutti i migliori andranno via, e la Rai sarà ridotta a cartello televisivo di serie b. Gli artisti più bravi – dice – godono delle cifre che il mercato loro assegna, nulla di più né di meno, e portano in dote decine di inserzionisti pubblicitari. Carlo Freccero, consigliere di amministrazione, ci ricorda poi che il Festival di Sanremo è tra i più profittevoli eventi per il bilancio Rai.

Tutto vero. Due considerazioni, però. La prima: l’artista, cantante o attore, sarà un umano diverso da noi? Perché Carlo Conti può chiedere ciò che a Tito Boeri è invece negato? Boeri è presidente dell’Inps e ha approntato una spending review sui costi gestionali dell’ente. La sola revisione di questi costi – dato il carattere elefantiaco del conto economico dell’Inps – sembra abbia procurato 900 milioni di euro alle casse dello Stato. Potrebbe Boeri chiedere per sé e il suo staff un venti per cento? Farebbero 180 milioni e nessuno potrebbe fiatare. Però si chiama Boeri, non Fabio Fazio. E quindi al primo neghiamo ciò che al secondo è permesso.

In ragione di cosa? In ragione forse del fatto che il secondo è un volto televisivo, viene a trovarci in casa, ci assicura serate divertenti e intriganti con i suoi ospiti di primo livello, le star!!! Ogni domenica sera. Il primo invece no. E’ uno scontroso economista, non lo riconosceremmo di certo per strada, figurarsi se ricordiamo il suo nome.

E perché Boeri accetta di fare il presidente dell’Inps per soli 102mila euro l’anno? Perché sa che il rilievo pubblico del suo ruolo è enormemente gratificante per la propria reputazione e anche per il prestigio e il potere che ne consegue. Invece l’artista è un umano geneticamente modificato e per esempio Laura Pausini, per essere lei, non può chiedere meno – dico a caso, ma non tanto – di 50mila euro a serata per qualunque ragione al mondo e a chiunque. Il suo cachet sarebbe il risultato del proprio valore commerciale. Invece purtroppo non è concesso misurare il valore professionale e persino economico, per aggiungere esempio ad esempi, di Milena Gabanelli. E qual è il valore civile di Carlo Tansi, il capo della Protezione civile della Calabria, che gestisce milioni di euro e – mettendo a rischio il suo corpo – sta provvedendo a bonificare il dipartimento da truffe continue, appalti milionari e spreconi, resistenze incivili e connivenze criminali? Tansi è un geologo del Cnr, e il suo talento, il valore economico del proprio impegno come è remunerato dallo Stato?

Ma questo è populismo, ci dice la presidente della Rai, è l’idea plebea di far divenire tutti uguali, di bruciare per invidia ogni carriera che si erga sopra gli altri, e ridurre il mondo a un grigio totalizzante. Il populismo è la via maestra del pauperismo: dal momento che c’è la crisi, i poveri aumentano. E allora povertà per tutti. Questo pensa indignata la Maggioni.
Lo pensa, ma sbaglia. E’ invece l’esatto opposto. Ritenere che soltanto a una categoria di professionisti possa essere riservato un trattamento che a tutti gli altri è inibito, reca in sé il principio della diseguaglianza, accoglie come regola l’eccezione e fa di un privilegio un diritto.

Andiamo alla seconda considerazione. I grandi nomi dello spettacolo – si teme – filerebbero via come un sol uomo un minuto dopo che il tetto fosse entrato in vigore. Non c’è dubbio che le altre tv non aspetterebbero un secondo per ingaggiarli. Ma una domanda, anzi due: quanti Carlo Conti servirebbero a Mediaset? Uno. E gli altri? E poi: siamo sicuri che l’azienda concorrente pagherebbe il quadruplo un artista sapendo che lo può tirar via per una manciata di euro in più?

Ultima domanda: ma se la Rai è la prima industria culturale del Paese come può un grande artista snobbarla? Quand’era all’apice del suo successo Pippo Baudo cedette alle lusinghe berlusconiane e accettò di trasferirsi a Mediaset. Passò un anno o poco più e, pur di rientrare in Rai, sciolse anticipatamente il contratto che lo legava al Biscione pagando persino una salatissima penale: cedette a titolo di risarcimento un intero palazzetto di sua proprietà in via dell’Aventino a Roma, dove oggi sono gli studi giornalistici di Canale 5. E Michele Santoro quanto tempo è durato dalle parti di Arcore? Quasi niente.

Dunque i soldi saranno pure importanti, ma è dimostrato che conta ancor di più il brand, l’identità culturale, la storia, il patrimonio professionale di un’azienda. Se la Rai ha l’ambizione di voler essere la prima tra le televisioni in campo non abbia timore: i migliori busseranno sempre alla sua porta. A prescindere, direbbe Totò.

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