Ci vuole coraggio a decidere di voler morire. Morire sul serio senza aspettare che la morte arrivi lenta o all’improvviso, mentre cerchiamo di abituarci all’idea che prima o poi potrebbe accadere. L’idea della morte, come l’emblema di qualcosa che finisce, che spezza, che separa e crea distanze non misurabili, ha sempre rappresentato per me un punto cardine dalle mille sfaccettature e dagli innumerevoli spunti di ricerca. Ci sono molti modi in cui si può morire. Io lo so. E vi dico che ci vuole coraggio a decidere consapevolmente e razionalmente di morire davvero. Di morire sul serio. “Fine vita”, espressione spesso utilizzata come uno slogan senza anima; eppure, lì dentro, se ci pensate un attimo, se tentiamo di entrare dentro quel silenzio che provoca, nella sua linea diritta e orizzontale che in realtà non sappiamo se ha davvero una fine, c’è l’essenza di tutto ciò che siamo in grado o riusciamo a realizzare attraverso le nostre azioni quotidiane. Viviamo, amiamo, sbagliamo, costruiamo o distruggiamo, sapendo che questa “sporca vita”, come canta Paolo Conte, è più o meno bellissima a seconda di come riusciamo a vivercela e di cosa ci capita, ma è lì che giunge. Unico punto fermo. La variabile, sta “soltanto” nel come, e non è qualcosa di ininfluente.
Io credo che, troppo spesso, argomenti come questi, come la morte, la volontà di morire, la dignità della vita che si intreccia inevitabilmente con la dignità nella malattia, con il diritto alla non sofferenza, vengano affrontati senza considerare “un particolare”, un concetto “banale” che sta alla base di un dato di fatto. Ognuno di noi può decidere, in qualsiasi momento e nelle più svariate modalità, di poter mettere in pratica quel “fine vita” che sfido chiunque a dirmi di non essersi mai immaginato. Suicidio. La cosa peggiore che può capitarti in seguito, è quella di non avere il funerale in Chiesa perché hai rinnegato la Volontà del Signore. Amen. Eppure vi dico, che è una decisione che non si prende con leggerezza. Ci vuole più coraggio a farla finita per sempre, o a vivere completamente, piuttosto che accettare la morte lenta dell’anima, dentro l’agonia del non voler esistere.
In realtà non so perché queste mie parole e riflessioni siano arrivate alle mie dita dopo aver letto la storia di Fabiano. So che quella decisione deve poter essere personale, e per questo è necessario che una legge ne determini le modalità. Perché anche se io potessi porre fine alla mia vita, preferirei non farlo schiantandomi ad esempio sull’asfalto. Oppure di nascosto, da sola, lasciando la letterina, ingollandomi un mix di farmaci con il rischio di essere anche salvata. Se poi penso a chi non può neppure agire in quel senso perché costretto da una condizione che non gli permette di scegliere per sé, o per quel corpo che non risponde più alle sue volontà (esprimibili sul momento, o espresse in precedenza), trovo che sia una reale tortura. Ma siamo in un paese in cui non c’è nemmeno una legge su questo, sulla tortura, e pensiamo che a qualcuno dei nostri politici interessi una riflessione profonda sulla morte e sul senso così personale di questa vita così misteriosa e, a volte, così insopportabile.
Eutanasia è un termine che tutto sommato non mi piace. Maschera. Non mi piacciono le parole che tendono a mistificare, per essere inglobate nel sentire comune, e sfuggire (senza comunque riuscirci) al moralismo cattolico. SUICIDIO ASSISTITO. È questo. Abbiamo il dovere di parlarci e confrontarci con termini che ci mettano davanti alle scelte possibili. E io questa scelta, vorrei poterla fare, nel caso ne sentissi la concreta necessità. A dirla tutta, io vorrei poter essere libera di scegliere in questo senso non solo per gravi malattie (perché anche questo aspetto, trovo che vizi un argomento ben più complicato, ma mi rendo conto di scandalizzare potenzialmente qualcuno con questa affermazione). Non è certo detto che lo farei, ed è ovvio che dovrebbe esistere una regolamentazione appropriata che porta a iter chiari, anche di natura psicologica. Parliamo di libera scelta, nella dignità. Ci vuole coraggio a decidere di morire. Io lo so. Come ci vuole coraggio a decidere di vivere.
Fabiano ha scelto la sua strada, ma ha potuto concretizzare la sua scelta fuori dal suo paese, fuori dalla sua casa. L’Italia è salva dall’ira divina, quell’ira di cui non ha prove, ma ha la coscienza sporca. Quella coscienza così umana, che invece percepiamo ogni volta che stiamo con noi stessi, canta così: “If you try walking in my shoes”.