Tirato per la giacchetta. Ovunque e da chiunque. Lucio Dalla oggi sembra ancora vivo. Cinque anni dopo quell’improvviso black-out che l’ha portato via in un momento in cui non ci si spellava più le mani per i suoi dischi. L’ultimo, Questo è amore, non era più che l’eco di un ricordo del cantautore che aveva rivoluzionato il pop italiano negli anni settanta. Lasciato un po’ da parte Lucio. Finito sornione ai margini di un circuito discografico trasformato e disilluso, senza più quella gioia creativa di chi sapeva di essere stato pioniere di un cambiamento epocale.
Eppure Dalla era sempre a passeggio tra le strade di Bologna dove, davvero, non si perde neanche un bambino. Lucio c’è sempre stato. Lì a pochi metri da casa con uno stornello rivolto al cane di un passante, poco più in là con la faccia buffa di un folletto primitivo entrato nel mondo di notai, avvocati, gentildonne da tavolini con caffè esosi del centro storico. Eppure Lucio era sempre stato nascosto nelle orecchie, nella pancia, e nel cuore di tutti. Dalle gallerie chic ai palazzoni delle periferie, su bici, taxi, bus e suv della sua città che lo amava con quel rispetto contemplativo quasi fosse un papa. Musica e mito popolari poi diventati inaspettatamente virali, immensi ed eterni, mentre la folla proveniente da ogni parte d’Italia raggiungeva Piazza Maggiore a Bologna, il 4 marzo 2012 per il suo funerale. I bolognesi, al solito schivi di fronte ai forestieri, fecero entrare il mondo. In silenzio, in fila, composti, ad ascoltare Lucio suonato nella piazza. Quando qualche storico tra 50 anni chiederà cosa ha tenuto unito un paese dovrà ricordarsi che oltre a undici sciamannati in calzoncini corti c’era L’anno che verrà cantato e ripetuto a memoria come l’Inno di Mameli o un Padre Nostro, da Pescara a Bolzano, da Aosta a Siracusa.
Lucio Dalla è questa roba qui. Una trama sottile e sottopelle, un accordo dolce e un’armonia gentile, un testo che è perenne pura poesia (in questo solo Francesco De Gregori gli è arrivato vicino). Quando furoreggiava in Vespa sui colli con Piera Degli Esposti e svisava note jazz con clarino e gorgheggi diventati pezzi immancabili degli esordi chiunque lo ascoltava con serietà. Quando cominciò a intonare acuti da cantante lirico molti cristalli davvero si ruppero nel mondo. Quando si mise a saltellare leggiadro per la favola di Attenti al lupo mai nessuno gli diede del deficiente. Lucio era uno di quelli che si era meritato il rispetto dell’umanità facendo ascoltare la sua arte. E a quell’umanità continuava a dargli del tu. Impossibile contestarlo, impossibile non amarlo.
Dentro ai palasport dove andava con la testa all’insù a rimirare i giganti del basket, o allo stadio per i rossoblù che lo facevano spesso penare. E se ogni anno partono le commemorazioni, i concerti, i film, le interviste, e i retroscena, sempre per dirne una in più su di lui, è anche vero che la commozione per Dalla è stata quanto di più sincero si è visto nell’intero stivale. A Bologna, poi, mai a nessuno è stato concesso un tributo dopo la morte come a lui. E mai verrà fatto. Santo laico che dimenticò di dare un paio di dritte in caso di addio. Peccato per quell’eredità vagolante nel caos dell’umano appetito. Per quei beni materialissimi finiti tirati come la sua giacchetta d’artista di cui sopra. Bastava qualche riga, una firmetta, un file audio. Invece Dalla è sparito così. Sulle rive di un lago dove risuona sempre del jazz. Lasciamolo andare Lucio. Si farà vivo lui sbucando inatteso per tre minuti, come scriveva qualcuno, da un autoradio. Con ad ognuno la sue strofe preferite. Che per me sono queste, in compagnia degli Stadio: “Tutta la vita, telefonista e moribondo/piacevolmente addormentato/su e giù o nel buio di un divano/Tutta la vita, al centro della confusione/o dentro il palmo di una mano/ma senza niente di meccanico/come un pallone che si è perduto/io ti saluto, io ti saluto”.