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Starbucks “un’umiliazione per l’Italia”? Niente affatto. Anzi affermare una cosa del genere è anacronistico e pericoloso

Stracciarsi le vesti per un Caramel Latte bevuto di corsa dall'iconico bicchiere di cartone è francamente ridicolo. L'indignazione è un'arma indispensabile ma assai pericolosa. Ultimamente la si usa sin troppo e quasi sempre a sproposito

La polemica di Domenico Naso

La svolta autarchica di Aldo Cazzullo, che sul Corriere di mercoledì definisce l’arrivo di Starbucks in Italia “un’umiliazione”, lascia interdetti assai, non solo chi scrive ma anche molti utenti Twitter. Il giornalista di via Solferino parla della catena americana del caffè come “il più clamoroso esempio di Italian Sounding: di prodotti che suonano italiani, ma non lo sono”.

È vero, come scrive Cazzullo, che “il menu è scritto in italiano, dall’espresso al cappuccino”. Ma continuare lamentandosi del fatto che “non è caffè italiano, non è lavoro italiano” è un modo di vedere la cosa molto parziale e addirittura strumentale. Perché l’Italian Sounding è un problema reale e gravissimo per il comparto alimentare tricolore, con formaggi e vini fasulli venduti in ogni angolo del mondo come se fossero stati prodotti in Italia. Un danno economico e di immagine, oltre che una truffa bella e buona, che va combattuta con tutti gli strumenti a nostra disposizione ma che non ha nulla a che fare con la vicenda dello sbarco di Starbucks a Milano (con insopportabile polemica a latere sulle palme in piazza Duomo).

Innanzitutto l’Italia non è un Paese produttore di caffè, ma ha semplicemente istituzionalizzato e reso universale una maniera di gustarlo. L’espresso è italiano, come concetto anche culturale, oltre che come modica quantità con gusto forte. Starbucks non è famosa in tutto il mondo per l’espresso, per la tazzina all’italiana, ma deve la sua fortuna a prodotti più elaborati, dal Frappuccino al Caramel Macchiato, passando per i dolcetti e le bevande fredde al gusto di caffè.

Usa l’italiano perché è la lingua del caffè, ma non millanta produzioni italiane né sfrutta alcunché del nostro patrimonio alimentare e gastronomico. Non ha nulla a che vedere con l’orrido “parmesan cheese” made in Usa o made in China, così come non ha nulla a che vedere con i vinacci ultrachimici spacciati per italiani in improbabili angoli del globo. Starbucks non è una minaccia alla “cultura dell’espresso”, figuriamoci se è un’umiliazione. Un saggio lettore del Corriere ha ricordato a Cazzullo come i fast food americani esistano ormai da oltre trent’anni anche da noi e che comunque le pizzerie continuano a essere piene. Starbucks, così come McDonald’s, è un’alternativa, un’offerta che risponde a una domanda, come è giusto che sia. I clienti italiani decideranno se premiare lo sbarco sulle sponde italiche (rimandato per anni proprio perché gli autarchici cultori della tazzina hanno fatto terrorismo psicologico). Il resto è una battaglia di retroguardia, stantia e priva di qualsiasi senso logico.

Abbiamo così tanti motivi per sentirci umiliati come italiani, che stracciarsi le vesti per un Caramel Latte bevuto di corsa dall’iconico bicchiere di cartone è francamente ridicolo. L’indignazione è un’arma indispensabile ma assai pericolosa. Ultimamente la si usa sin troppo e quasi sempre a sproposito, ma almeno evitiamo di renderci ridicoli conducendo “battaglie della tazzina” da Ventennio, fuori dal tempo e dalla storia, un anacronistico tentativo di difendere le patrie virtù da minacce inesistenti.

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