di Annalisa Rosiello*
In molti anni di esperienza professionale, ho potuto osservare come la maggior parte delle problematiche che insorgono all’interno delle organizzazioni (private e pubbliche), sono legate a una scarsa o inadeguata preparazione dei “capi” rispetto a una corretta gestione delle relazioni ed esercizio della leadership.
Infatti, avere come riferimento un capo inefficace o poco organizzato, oppure un capo anche tecnicamente preparato, ma poco incline alla delega o, peggio ancora, un capo maleducato comporta problematiche a vari livelli:
– all’organizzazione generando un elevato turnover dei dipendenti o assenteismo, primi marcatori della presenza di stress lavoro-correlato
– al lavoratore creando situazioni di stress, disaffezione al lavoro, mancata crescita o perdita di professionalità, disturbi fisici, psichici (o di entrambi i tipi) fino a sfociare in patologie quali ansia e depressione;
– alla collettività tutta (costi sanitari, costi degli istituti previdenziali, effetti sul Pil, ecc.).
Un buon capo è dunque – secondo il pensiero comunemente condiviso nelle ricerche e dai professionisti del settore – uno tra le componenti fondamentali che contribuiscono a far crescere ed evolvere un’organizzazione.
Un manager efficace ed efficiente deve essere prima di tutto un buon leader.
Ogni organizzazione dovrebbe dunque essere in grado di scegliere adeguatamente il proprio management e di consentirgli un adeguato e costante percorso di formazione.
La formazione di cui parliamo, evidentemente, non riguarda solo gli aspetti tecnici e gestionali, ma coinvolge soprattutto le cosiddette “soft skills”, ovvero quelle capacità o competenze trasversali che includono le qualità personali, l’atteggiamento in ambito lavorativo e le conoscenze e abilità nel campo delle relazioni interpersonali.
Ciò premesso, ho letto con un certo disappunto una recente sentenza della Cassazione nella quale si trattava il caso di un capo reparto “che aveva un brutto carattere, che alzava ordinariamente la voce e che aveva un atteggiamento aggressivo nei confronti di tutto il personale”.
Mi ha stupito negativamente leggere affermazioni per cui il capo era stato unanimemente giudicato in maniera positiva “sulle capacità professionali e, soprattutto, organizzative” e che tutti i testimoni “avevano riconosciuto nello stesso alto senso di responsabilità e disponibilità a svolgere, in caso di emergenza, anche attività che non erano di sua competenza”; di conseguenza l’atteggiamento dello stesso, seppur severo e autoritario, non poteva essere indice di un intento persecutorio, ma era il modo della persona di esercitare le prerogative di superiore gerarchico, con la finalità di “scongiurare disservizi e garantire l’efficienza del reparto”. Quindi alla vittima nessun risarcimento.
La sentenza parrebbe sostenere la tesi per cui le “ragioni dell’efficienza” sembrerebbero avere la meglio sui diritti di dipendenti, che lavorano con l’intento di operare in un clima corretto e rispettoso della propria dignità in quanto persone.
Ma sappiamo che invece non è così.
Numerosi sono i casi trattati in giurisprudenza di segno diametralmente opposto.
Ad esempio una sentenza della Corte d’Appello di Milano che in un caso di leadership negativa ha riconosciuto alla vittima un risarcimento, qualificando le condotte come “comportamenti ostili e ingiuriosi riservati ai dipendenti, non tutti capaci o disposti ad accettarli senza disagi psicologici”.
Altro caso eclatante di mobbing “collettivo” è quello verificatosi all’Ilva di Taranto nei confronti di 60 lavoratori “confinati” per parecchi mesi in una palazzina definita “lager” senza alcuna mansione; ciò con l’intento di muoverli, attraverso questa ignobile e illecita modalità, ad accettare differenti condizioni contrattuali; tale situazione provocava in molti di loro pesanti conseguenze sul piano psichico. Sulla vicenda è intervenuta la Cassazione, sezione 6° penale condannando i responsabili del fatto, tra gli altri, per il reato di violenza privata.
Infine, in uno studio, pubblicato dalla rivista americana Quarz, sono state raccolte e analizzate le indagini svolte dall’American phsycology association (Apa), dalla Harvard Business School e dalla Stanford University in tema di disagio lavorativo: la conclusione è che “più a lungo si lavora per qualcuno che adotta comportamenti stressogeni per il lavoratore, maggiore è il danno alla sua salute fisica e mentale”.
Fortunatamente i passi avanti compiuti negli ultimi decenni dalla legislazione per tutelare la dignità della persona nei suoi diritti fondamentali, a beneficio – peraltro – anche dell’organizzazione e della collettività tutta, sono molteplici.
Benché l’art. 2087 c.c. resti il baluardo fondamentale, il TU 81/2008 (art. 28) ha introdotto uno specifico obbligo di valutazione del rischio stress lavoro-correlato, da effettuarsi con indagini di clima mirate. La legislazione antidiscriminatoria tutta (d.lgs. 215 e 216 del 2003 e d.lgs. 198/ 2006) contiene alcune definizioni di molestie morali a sfondo discriminatorio molto simili a quella di mobbing. Una normativa specifica è intervenuta anche nel pubblico impiego con la nota direttiva 24 marzo 2004 in tema di “miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni” e con l’istituzione dei Cug (Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni) definiti dall’art. 21 della l. n° 183/2010.
Molteplici, infine, sono poi contratti collettivi (nazionali e aziendali) e i codici etici che mirano a contrastare pratiche discriminatorie e di mobbing nonché a istituire un clima relazionale e lavorativo corretto all’interno dei luoghi di lavoro.
Tutto questo non può prescindere da un’adeguata formazione dei lavoratori, soprattutto dei lavoratori con ruoli direttivi: i “capi maleducati” o cambiano prospettiva (svolgendo come si diceva dei percorsi formativi) o – evidentemente – non possono essere considerati adatti a ricoprire quel ruolo.
* L’autrice è una delle curatrici di questo blog. Qui la sua biografia.