Un gruppo di migranti vive nella sede della Compagnia del Gesù dal 17 gennaio, dopo l'incendio del capannone di Sesto Fiorentino dove morì uno di loro. Da allora il conflitto è tra legalità e solidarietà. Da una parte Comune e Diocesi che rimangono in silenzio e non cercano una soluzione, dall'altra padre Brovedani, unico gesuita in città, che si è opposto all'intervento della polizia per lo sgombero: "Prima viene la persona"
Nel palazzo dei gesuiti di via Silvio Spaventa, a Firenze, dal 17 gennaio va in scena un conflitto tra legalità e solidarietà. Una novantina di somali, capitanati dal leader del movimento di lotta per la casa Lorenzo Bargellini, nipote dell’ex sindaco Piero Bargellini, hanno occupato la sede della comunità dei gesuiti. Una sede grande circa 3500 metri, al centro di una trattativa con i cinesi dell’università Tongij di Shangai, ritenuto il più grande politecnico della Cina. I somali provenivano da Sesto Fiorentino, dove vivevano nel capannone ex Aiazzone, che ha preso fuoco provocando la morte orribile del somalo Ali Muse. Ma dopo un mese e mezzo i somali sono ancora lì, in stato di occupazione, e le istituzioni, a cominciare dal sindaco renziano Dario Nardella, tacciono per una ragione, sostengono, di rispetto della legalità: l’occupazione della sede dei gesuiti è un reato e quindi con i somali non ci parlano finché non alzeranno bandiera bianca o non sgombereranno.
Ma fin dal primo momento dell’occupazione padre Ennio Brovedani, 73 anni, l’unico gesuita rimasto a Firenze come direttore dell’istituto culturale Stensen, amico del cardinale Carlo Maria Martini e di Romano Prodi, si è opposto a richiedere alla questura lo sgombero forzato del palazzo occupato. “Non potevo oppormi all’occupazione. È prevalso in me quel sentimento di pastoralità che dovrebbe caratterizzare ogni uomo di fede e a maggior ragione ogni religioso e sacerdote: prima di tutto la persona e poi anche la legalità (palesemente infranta). Senza legalità, infatti, non è possibile alcuna integrazione e convivenza civile”, ha spiegato padre Brovedani a Toscana oggi, settimanale delle diocesi toscane.
Sul gesuita e il suo no allo sgombero pesa anche l’appello di papa Francesco all’accoglienza dei migranti. Padre Brovedani deve aver intuito la trappola: se avesse chiesto lo sgombero avrebbe dato il là alla facile propaganda di Matteo Salvini: “Papa Francesco chiede di accogliere gli immigrati ma i gesuiti chiedono lo sgombero dei somali”.
Così padre Brovedani è rimasto solo. La città di La Pira e don Milani, di padre Balducci e del cardinale Silvano Piovanelli, che nel luglio del 2000 espresse solidarietà ai somali riuniti in segno di protesta sotto una tenda, installata in piazza Duomo, si è chiusa a riccio. Nel 2000 ci fu almeno l’ira di Oriana Fallaci che dalla tenda dei somali trasse ispirazione per il suo La rabbia e l’orgoglio”. Questa volta silenzio, indifferenza. Nessuno alza il telefono per esprimere solidarietà al gesuita o prospettare una qualche via di uscita.
La legalità, prima di tutto. Anche dalla Curia il cardinale Giuseppe Betori ha fatto sapere che quell’occupazione non lo riguarda. Che quindi non ha alcuna intenzione di entrare “nel merito della vicenda specifica, che è al di fuori della responsabilità della diocesi, avendo come protagonisti le istituzioni civili e i religiosi Gesuiti, proprietari dell’immobile, che si esprimono attraverso i propri Superiori, i quali non rispondono al vescovo, ma direttamente alla Santa Sede”.
Una prosa legalista che collide con quella solidale di padre Brovedani che ribadisce sì l’importanza del rispetto delle regole ma anche “l’attenzione alle necessità e ai bisogni più urgenti dei somali. Devo cioè chiedere a loro, prima di tutto: “Come stai? Di cosa hai bisogno?”. E aggiunge, il gesuita, che occorre evitare un conflitto di valori: “Tra i valori perseguiti (nella fattispecie la legalità) e i valori eventualmente violati dalle possibili conseguenze dell’agire secondo i requisiti della legge”. Che in definitiva occorre “convincere, mai vincere”.
Intanto però i giorni passano, i somali restano lì, “asserragliati” nel palazzo dei gesuiti, mentre la politica tace. Padre Brovedani, che si è incontrato nei giorni scorsi, con i vertici romani dei gesuiti, ha avuto l’avallo per la sua linea di intervento basato sulla ricerca di “una risoluzione ragionevole della situazione, che concili da un lato l’esigenza istituzionale del rispetto della legalità e dall’altro eviti un ulteriore svilimento della dignità dei rifugiati”.
Quindi no allo sgombero con la forza, sì al dialogo, ai piccoli passi. Il primo risultato ottenuto dal gesuita è la definizione, su incarico del prefetto Alessio Giuffrida e in collaborazione con il capo della comunità somala Osman Gaal, di una lista di 26 occupanti, che si sono detti disponibili a lasciare l’Italia. Altri somali potrebbero entrare nel percorso Sprar, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. Obiettivo: arrivare ad un numero limitato di somali, al massimo una ventina, che potrebbero essere accolti dai comuni dell’area fiorentina.
Per padre Brovedani la politica – spiega – è la ricerca “di un metodo, cioè di una strada”. Magari lunga, complessa. Una strada, però. Non il muro eretto da Firenze.