Vivi in Italia da sei anni con i tuoi genitori. Loro ti hanno desiderato sin da prima del tuo concepimento, ti hanno amato appena hai visto la luce. Ti hanno cambiato i pannolini, portato prima all’asilo e poi a scuola, presentato alla maestra, preparato la merenda, negoziato il compenso della tata e organizzato i pomeriggi con i nonni. Ti hanno curato quando eri malato e abbracciato quando cadendo ti sbucciavi il ginocchio. Per sei anni. E tu, ovviamente, li ami entrambi perché per te non fa differenza quali siano i loro nomi sul passaporto.

Eppure, per qualcuno quei nomi fanno una bella differenza, soprattutto se sono due nomi maschili. E la differenza la fanno anche per la legge, visto che uno dei due è più papà dell’altro perché condivide con te un dato invisibile qual è il patrimonio genetico. Finché non arriva un giudice che, per tua fortuna, ti ribadisce che questa differenza non conta.

È successo a Trento, dove con l’ordinanza del 24 febbraio scorso la Corte d’Appello ha sancito la possibilità giuridica di una famiglia composta da due uomini e dai loro figli nati all’estero da gestazione per altri. Così, a due bambini di sei anni sono state assicurate sia la continuità transfrontaliera dello status familiare, sia la continuità affettiva con la famiglia che hanno sempre avuto. È una sentenza storica.

Storica perché rende evidente un punto di diritto che evidente non è affatto, e cioè che genitori non si nasce grazie ai geni ma si diventa con la cura, l’amore e la dedizione. Non è uno spermatozoo a renderti padre, così come non è un utero a renderti madre. Il ragionamento della Corte è, ovviamente, molto più articolato e argomentato di questa semplice affermazione, che però resta e deve restare il punto di partenza per ogni discussione sul tema.

Discussione che nel caso di specie riguarda il riconoscimento e la trascrizione, presso i registri dello stato civile italiani, di due certificati di nascita di due bambini residenti in Italia ma nati all’estero da una gestazione per altri (espressione usata in Francia per designare ciò che, volgarmente o in virtù di una semplificazione giornalistica che considero estremamente superficiale, dunque inescusabile, viene chiamato “utero in affitto“). I problemi qui sono due: da un lato i bambini sono nati grazie a una tecnica espressamente vietata in Italia (per essere precisi dall’articolo 12, comma 6, della legge n. 40 del 19 febbraio 2004); dall’altro i certificati di nascita, come avviene solitamente nei Paesi dove la gestazione per altri è legale e disciplinata da apposite leggi, riportano due uomini come genitori di questi bambini, uno per essere il padre biologico e l’altro per aver beneficiato, sempre in quel Paese, di un provvedimento di adozione coparentale (quella stepchild adoption impronunciabile per molti dei nostri parlamentari) in epoca immediatamente successiva alla nascita dei due bambini.

Per la Corte nessuno di questi due problemi risulta insormontabile. La Corte ha infatti confermato la trascrizione dei due certificati di nascita così come sono, cioè con la menzione dei due padri. E l’ha fatto nonostante il processo attraverso il quale tale nascita ha avuto luogo (la gestazione per altri, che da noi è e resta vietata) e il genere dei genitori.

È ovvio e normale che a qualcuno tutto questo possa sembrare strano, ma ciò che non è più legittimo, dopo anni di sentenze e discussioni sul tema, è non fermarsi un attimo a pensare, a respirare, è vomitare giudizi su persone che stanno a migliaia di chilometri di distanza, è ragionare di massimi sistemi perdendo di vista l’umanità dei singoli casi, è trascurare ciò che non è più trascurabile. E se ci fermiamo un attimo a pensare, forse riusciremmo a riconsiderare qualche dato, ad esempio che non si possono punire dei bambini per la condotta dei loro genitori e che quindi negare a un bambino i suoi diritti fondamentali (tra i tanti, il diritto ad avere dei genitori e il diritto a che la legge consideri tali coloro che se effettivamente ne prendono cura e non coloro che non vogliono accettare tale ruolo, e così via) è profondamente ingiusto e in ultima analisi moralmente sbagliato; che l’espressione sfruttamento delle donne mal si addice ad ordinamenti che, nel disciplinare con leggi democratiche la fattispecie della surrogazione di maternità, non dimenticano di contemperare tutti gli interessi in gioco, garantendo sia il sacrosanto diritto di ripensamento della gestante (la quale, va ricordato, rifiuta del tutto di assumere il ruolo di madre o di genitore, mentre tale ruolo vogliono assumere con ferma decisione i c.d. “genitori d’intenzione“, siano essi di sesso diverso o dello stesso sesso) fino all’ultimo momento, sia la gratuità dell’intera procedura, che valorizza la libertà della donna di decidere per sé e per altri con generosità e abnegazione. Coloro che sostengono, e non sono pochi, che è impossibile che una donna si renda disponibile a compiere un atto del genere (alcuni addirittura sulla base della circostanza che non ne conoscono nessuna!), evidentemente, fanno fatica a concepire una generosità dissociata da un immediato vantaggio o un atto di libertà che sia veramente incondizionato.

Sul suo profilo Facebook Giorgia Meloni sostiene che “il lavoro della magistratura è applicare la legge, non scrivere sentenze che la aggirano“, e ritiene che per impedire il ricorso alla gestazione per altri all’estero è sufficiente rendere universale il reato di surrogazione di maternità, punendolo anche se commesso all’estero. Si tratta anche qui di suggestioni subdole e sbagliate.

Il tema della decisione della Corte, infatti, non è la gestazione per altri in sé ma le sue conseguenze secondo a una legge straniera, che peraltro il nostro diritto ritiene applicabile al rapporto di filiazione, la quale riconosce e legittima questo procedimento. Allargare le maglie del diritto penale non incide in alcun modo sul diritto dei bambini nati da gestazione per altri a conservare la propria identità, il proprio nome e il legame con il genitore che effettivamente se ne prende cura.

Quello che la Corte tridentina oggi ci dice è che non si può al contempo discutere di gestazione per altri e di omogenitorialità senza mettersi dalla parte dei bambini, e in ultima analisi senza considerare che nella società umana l’amore conta ben più della biologia. È un bel passo avanti, anche solo rispetto a un Parlamento che sembra aver ormai rinunciato, e da tempo, purtroppo, ad inserire discussioni serie nella propria agenda quotidiana.

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