Nei luoghi di potere il numero delle donne aumenta, ma questa tendenza frena quando si parla dei ruoli chiave. Ne sono prova i dati che riguardano il Parlamento italiano e quello europeo, dove si aggira attorno al 30% la quota di donne titolari di un seggio. Presenza che sale anche di più negli organi di governo delle amministrazioni locali. Per la prima volta nel 2016 le donne hanno conquistato il 30% degli incarichi anche nei consigli di amministrazione delle aziende quotate nella borsa italiana.

Nel dossier Trova l’intrusa l’osservatorio civico Openpolis analizza la presenza femminile nelle istituzioni, rilevando il doppio binario su cui viaggiano le donne: da una parte se ne contano di più, ma è anche vero che sono poche o anche pochissime nelle poltrone davvero importanti. Ed è un fenomeno che non riguarda solo la politica, come dimostrano i dati delle società quotate in borsa. Nel 2016 le donne sono arrivate a occupare 687 poltrone in cda e organi di controllo: un record storico, che porta le dirigenti al 30,3% degli incarichi.

“Solo pochi anni fa la situazione era desolante – rileva l’osservatorio – ma il miglioramento è dovuto all’obbligo introdotto dalla legge 120/2011 di aumentare progressivamente le nomine femminili negli organi di amministrazione e controllo delle società quotate”. Negli ultimi 8 anni gli incarichi sono quindi aumentati del 314%. Eppure le amministratrici delegate sono 17, appena il 2,5% delle figure femminili.

Dal Parlamento al governo – Anche se la XVII legislatura è stata quella con la maggiore presenza femminile in Parlamento della storia d’Italia, nelle poltrone al vertice le donne diminuiscono, soprattutto alla Camera: le deputate sono il 31,30% del totale, ma a loro è assegnato solo il 19,23% degli incarichi di peso. La presidente della Camera Laura Boldrini presiede la conferenza dei capigruppo che, in quest’aula, sono solo uomini: 12 su 12. Le senatrici, invece, rappresentano il 29,60% dell’assemblea e ricoprono il 25,58% dei ruoli chiave. Passando all’esecutivo, nei 60 governi della storia repubblicana, i primi 29 non comprendevano nemmeno una donna. In totale quelli con almeno una ministra sono stati 27.

Tre anni fa – alla data di insediamento del governo Renzi – la questione della parità di genere sembrò arrivare a una svolta con 8 ministre su 16. Durò poco, il tempo di nominare viceministri e sottosegretari: si passò a 16 donne su 61 incarichi (il 26,23%). In pochi mesi, inoltre, le ministre scesero a 5, dopo le dimissioni di Maria Carmela Lanzetta, Federica Mogherini e Federica Guidi, tutte sostituite da uomini. Nel governo Gentiloni ci sono 5 ministre (2 senza portafoglio) su 18, ossia il 27,78%: Valeria Fedeli all’Istruzione, Beatrice Lorenzin alla Salute, Roberta Pinotti alla Difesa, Anna Finocchiaro (Rapporti con il Parlamento) e Maria Anna Madia (Semplificazione e Pubblica amministrazione). In pratica nel consiglio dei ministri il 40% dei ministri senza portafoglio è donna, le viceministre sono il 14,29% del totale, mentre le sottosegretarie il 31,43%.

Le regioni e le province – Il fatto che la presenza delle donne diminuisce man mano che si sale ai vertici è visibile sia nelle giunte che nei consigli regionali. In tutta Italia, solo due donne sono presidenti di Regione: Debora Serracchiani (Pd) in Friuli-Venezia Giulia e Catiuscia Marini (Pd) in Umbria. “Nelle giunte, dove gli incarichi sono conferiti, la presenza femminile è più consistente rispetto alle cariche elettive dei consigli – rileva il rapporto – ma anche tra le nomine si nota una tendenza netta: le donne restano lontano dalla gestione dei budget più consistenti”. Le assessore sono infatti molto più rare nelle tre materie che compongono la quasi totalità dei budget regionali: bilancio (dove sono appena il 15%), urbanistica, infrastrutture e trasporti (24%) e sanità (25%).

Le deleghe più frequenti sono quelle a lavoro e formazione professionale (81,82%) e agli affari sociali (66,67%). E dire che, secondo la definizione del Consiglio d’Europa, per una presenza equilibrata di uomini e donne negli organi decisionali non bisogna scendere sotto la soglia del 40% di uno dei due sessi. In Italia si rispetta questo parametro solo in 8 regioni e, per lo più, solo escludendo il presidente dal totale dei componenti. E mentre in Molise la componente femminile è totalmente assente dalla giunta regionale, la Campania eccede (ed è l’unico caso) in senso opposto con 6 assessore su 9 (66,67% del totale). Nessuna regione italiana arriva al 40% di donne nei consigli regionali e il risultato migliore spetta all’Emilia-Romagna, che arriva a un 32% di consigliere. Il record negativo è invece della Basilicata, dove l’organo è completamente mono-genere.

Alle ultime elezioni amministrative due donne sono state elette sindache in due grandi città italiane, Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino. Un segnale c’è “ma i dati – segnala l’osservatorio – dimostrano comunque una difficoltà delle donne a farsi eleggere”. Lo dimostra il fatto che nei 106 capoluoghi di provincia le sindache sono solo 9, ossia l’8,4% del totale. Per i comuni con una popolazione superiore ai 3mila abitanti la legge 56 del 2014, la legge Delrio, prescrive che “nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”. Per misurare gli effetti della norma Openpolis ha preso in considerazione i 67 capoluoghi di provincia andati al voto dopo la sua entrata in vigore. In 41 di questi comuni il peso di uomini e donne è bilanciato, poiché le donne in giunta sono tra il 40 e il 60% dei componenti. “In altre 15 città – rileva il rapporto – questo equilibrio può essere considerato rispettato solo interpretando in maniera estensiva l’espressione ‘arrotondamento aritmetico’, mentre in 11 città la presenza di uomini e donne in giunta risulta squilibrata”.

Uno sguardo all’Europa – Il Parlamento europeo è l’organo di più diretta rappresentanza dei cittadini, che ne eleggono i deputati. È in questa sede che le donne hanno più spazio, con il 37% dei seggi. Alla Commissione europea, che è il ramo esecutivo dell’Ue, le donne arrivano al 31%. “Tuttavia – spiega nel dossier l’osservatorio civico – le istituzioni europee sono più complesse di quelle nazionali e a definire l’orientamento politico generale e le priorità dell’Unione è il Consiglio europeo”. Qui le donne sono solo 4 su 28: il 14,29%. Numeri ancora più bassi per l’istituzione più importante in materia di politica economica, finanza e fisco: all’Ecofin le donne sono 3 su 28 (10,71%). Mentre al Consiglio degli Affari esteri si scende addirittura a una donna (la presidente Federica Mogherini) su 28 componenti, ossia il 3,57% del totale.

Le donne nelle aziende – Se nel 2008 le poltrone occupate da donne negli organi di amministrazione e controllo delle società quotate erano 170, ossia il 5,9%, nel 2016 gli incarichi di amministratore ricoperti hanno raggiunto per la prima volta la soglia del 30% nelle aziende italiane quotate in borsa. Ma anche nelle aziende si nota la stessa tendenza emersa nella politica. “A crescere – rileva il rapporto – sono infatti i ruoli non esecutivi, cioè di controllo sul management. Nel 68,56% dei casi si tratta di amministratrici indipendenti: figure non legate ai dirigenti esecutivi o agli azionisti, chiamate a vigilare nel solo interesse della società”. Man mano che si sale al vertice le donne diminuiscono: solo il 3% è presidente o presidente onorario. Un dato in controtendenza riguarda, invece, le figure che detengono incarichi in più società. Tecnicamente si chiamano ‘interlockers’. Mentre tra gli uomini sono in calo, il fenomeno è in forte aumento tra le donne. Le amministratrici titolari di poltrone in diverse aziende erano 76 nel 2013, il 13,72% degli interlockers totali, mentre se ne contano già 206 e arrivano al 41,68% del totale.

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