Musica

Quand’è che il settore musica deciderà di fare i conti con la sua imminente fine?

Almeno per come lo conosciamo, il mercato musicale è destinato a scomparire a breve: ecco perché

La polemica di Michele Monina

Fughiamo subito un dubbio, non è nostra intenzione essere nostalgici. Lungi da noi il far nostro il detto “Ah, come si stava meglio ai nostri tempi“. Per più di un motivo. Primo perché non è mai utile guardare con rimpianto al passato. Secondo, perché quando in effetti si stava meglio noi non c’eravamo ancora, o meglio, c’eravamo, ma eravamo troppo giovani per averne approfittato. Come dire, ci siamo affacciati al magico mondo della musica, di questo stiamo parlando, quando la tavola imbandita era stata sparecchiata, e non rimanevano neanche le briciole.

Quando infatti alla fine degli anni ’90 si è cominciata a paventare l’ipotesi che la musica si sarebbe potuta scambiare tramite internet, la storia di Napster la conoscete tutti, noi eravamo giovani, appena affacciati al mondo del lavoro. Non erano invece giovani i discografici che accolsero il file sharing con una grassa risata, convinti come erano che nessuno avrebbe rinunciato al supporto fisico, loro che avevano vissuto il tragico, per i cultori di musica, passaggio tra vinile e cd. La storia la conoscete già. Loro ridevano, l’Mp3 arrivò e si mangiò tutto, con buona pace del cd, destinato a vita breve e neanche troppo intensa. Poi, correndo avanti col cursore, c’è stato di tutto, da Emule a Torrent, fino all’avvento di Youtube e poi dello streaming, da Deezer a Spotify, fino a Tidal e tutta la bella compagnia. Intorno, anche questo lo sapete, la Morte Nera. Anche a livello di contenuti, perché ascoltare musica coi nuovi supporti ha cambiato anche il modo di fare musica, ma questa è faccenda ancora più complessa, che merita più spazio e tempo.

Nei fatti, neanche dieci anni fa, c’era gente che vendeva, anche da noi, centinaia di migliaia di album in cd, cioè c’erano centinaia di migliaia di persone che uscivano di casa, andavano in un negozio e si portavano a casa un cd. Oggi si vendono migliaia di cd, e sempre di più la musica è ascoltata e, ci dicono, venduta, in streaming, ancora più che in download. Cioè, tecnicamente, non è venduta, ma al limite è affittata temporaneamente. Le note lamentele degli artisti rispetto alla scelta di appaltare il mercato a chi gestisce lo streaming sono all’ordine del giorno. Milioni di visualizzazioni su Youtube, di brani in streaming su Spotify e affini porta loro in tasca niente, o quasi.

Eh, ma poi ci sono i live, dirà qualcuno. E ‘grazie al cazzo’. Come dire, siccome non vendi più musica, come in passato, ora puoi campare di live. Peccato che in passato questi due settori fossero contigui, non fusi. Quindi c’era gente che campava dell’uno e dell’altro. Peccato pure che non necessariamente un artista debba o voglia fare live. O che funzioni altrettanto bene nei live. E questo non va letto come una pecca, ma come un dato di fatto. Anche perché se no non si dovrebbe più parlare di catalogo, perché tutti gli artisti morti di cui ancora c’è musica, non possono certo fare live, siamo tutti d’accordo.

In tutto questo, ci dicono, il mercato in Italia è in crescita. Grazie allo streaming e al download, soprattutto allo streaming. Sappiamo tutti dei primi album certificati oro e platino solo con lo streaming, Rovazzi in primis. Sappiamo anche che disco d’oro e di platino, certificazioni atte a premiare le vendite dei singoli e degli album, si sono negli anni abbassate a livelli ridicoli, 25mila e 50mila, oggi. Ma il mercato è in crescita, dicono, come non accorgersene. Anche quello del vinile, e poco conta che un tempo i numeri per cui oggi c’è gente affetta da priapismo li avrebbero utilizzati come copie in regalo per la stampa. Il mercato è in crescita, dicono, basta guardare la pioggia di certificazioni arrivate anche solo negli ultimi giorni.

Ecco, guardiamo a queste certificazioni. E guardiamo al fatto che la Fimi abbia legittimamente deciso di alzare la soglia di comparazione tra streaming a download da cento a uno, come era fino a febbraio, a centotrenta a uno. Tradotto, ogni centotrenta volte che qualcuno si ascolta un brano, con un tetto di dieci ascolti riconducibili a una unità al giorno, è come se se lo fosse scaricato, quindi comprato. Chiaramente quei trenta streaming in più fanno una differenza notevolissima: ora sì che i cantanti torneranno a guadagnare dalla musica, ora sì che le certificazioni, e quindi le classifiche, sono veritiere!

E attenzione, qui non si parla di brogli, anche se sarebbe assai interessante capire se non c’è davvero modo di gonfiare i dati, come avviene per i Like sui social. Se gli artisti guadagnano nulla dallo streaming, così magari non è necessariamente per le case discografiche, che da una parte regalano ai cantati l’onore di certificazioni di cartone (si pensi, per dire, al Platino preso da Fragola con la pur bella D’improvviso), dall’altra, si suppone, avranno stretto accordi di cessione di catalogo con le aziende che ‘lavorano lo streaming’, lavorando sui forfait e quindi portando a casa un fisso, ultimo modo per fare cassa in un periodo non di vacche magre, ma di vacche morte.

Chiediamoci, già che ci siamo, quando il settore musica deciderà di fare i conti con la sua imminente fine, almeno per come lo abbiamo conosciuto. Intanto brindiamo alle Platinum Shower, le docce di platino, che hanno invaso il mercato italiano. Se le scopre Mr Grey ci tocca un altro ciclo di Cinquanta sfumature…

Quand’è che il settore musica deciderà di fare i conti con la sua imminente fine?
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