La relazione del prefetto di Lecce sull'infiltrazione dei clan nella giunta: gli accordi con il clan della Scu Giannelli riguardavano i rifiuti, le case popolari, ma anche l'assegnazione dei buoni-lavoro
Lo strumento con cui il governo Renzi avrebbe dovuto combattere il lavoro nero, nel Salento, è finito nelle tasche delle cosche di mafia. A Parabita (Lecce) il clan Giannelli, sodalizio storico della Sacra Corona Unita, ha sostenuto nel 2015 l’ultima campagna elettorale di alcuni esponenti politici locali, ricevendo in cambio una serie di favori. Ma risalgono a prima ancora gli scambi tra l’amministrazione e il clan che in città tutto poteva: dall’assunzione di sodali nella ditta che gestisce la raccolta dei rifiuti all’occupazione abusiva di case popolari, dalla gestione di negozi per investire il denaro sporco fino, appunto, all’assegnazione (viziata) di voucher per prestazioni lavorative occasionali. È tutto documentato nella relazione che il prefetto di Lecce Claudio Palomba ha inviato a novembre 2016 al ministero dell’Interno e che ha costituito parte integrante della proposta di scioglimento del consiglio comunale di Parabita, consegnata il 15 febbraio scorso dal ministro Marco Minniti al presidente della Repubblica. Il consiglio dei ministri ha poi deliberato lo scioglimento per infiltrazioni da parte della criminalità organizzata dell’assise cittadina il 17 febbraio e Sergio Mattarella ha firmato il decreto il 4 marzo.
“Ex vicesindaco può favorire ancora il clan”. Il sindaco fa ricorso
La commissione straordinaria (composta dai viceprefetti Andrea Cantadori, Gerardo Quaranta e al dirigente Sebastiano Giangrande) per i 18 mesi di incarico, fino alle prossime elezioni, avrà il compito di “rimuovere gli effetti pregiudizievoli per l’interesse pubblico”, ma dalla relazione del prefetto e dalla proposta del ministro emergono nuovi dettagli. Non si parla solo dell’ex vicesindaco di Parabita ed ex assessore ai Servizi sociali Giuseppe Provenzano, lista civica Uniti per Parabita (centrodestra), accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e già arrestato a dicembre 2015 nell’ambito della maxi-operazione “Coltura”, insieme ad altre 21 persone. Se lo stesso Provenzano, infatti, come documentato dalle intercettazioni, si autodefiniva il “santo in Paradiso” del clan, è anche vero che Minniti ha ricordato come sia stata la stessa Corte di Cassazione, in una sentenza dell’aprile 2016 (quindi successiva al blitz), a sottolineare il rischio che l’ex vicesindaco “potesse continuare a favorire esponenti del sodalizio criminale, anche grazie ai contatti con amministratori ancora in carica e indicati come vicini all’associazione mafiosa”. Eppure il primo cittadino Alfredo Cacciapaglia non ci sta e, ritenendo di aver agito sempre all’insegna della legalità, già nei giorni scorsi ha annunciato ricorso contro il decreto di scioglimento.
L’indagine e i rapporti con il clan Giannelli
La maxioperazione fu l’epilogo di un’indagine condotta dai carabinieri del Ros, che fecero luce sui rapporti tra l’amministrazione e il clan Giannelli, sodalizio legato al boss storico Luigi Giannelli (condannato all’ergastolo). A gestire gli affari di famiglia era Marco Antonio Giannelli (tra gli arrestati), al secolo “il Direttore“, figlio del boss. L’inchiesta è alla base anche della relazione della commissione d’inchiesta che ha indagato proprio sul rapporto tra il clan e l’amministrazione comunale di Parabita. Nel frattempo, il 12 ottobre scorso, nel giudizio abbreviato il gup Michele Toriello ha inflitto 18 condanne (20 anni a Marco Giannelli). Provenzano ha scelto il rito ordinario. Nella proposta del ministro Minniti “si dà atto della sussistenza di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti e indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso e su forme di un loro condizionamento” e della capacità del sodalizio “di inquinare l’amministrazione comunale di Parabita”.
“Il patto col gruppo mafioso per la campagna elettorale”
Nella relazione del ministro si sottolinea il ruolo dell’ex vicesindaco Provenzano, come “veicolo consapevole per favorire gli interessi criminali, sulla base di un vero e proprio patto di scambio politico-mafioso”. Secondo questa tesi, “pur non essendo inserito organicamente nel sodalizio”, l’amministratore “si è dimostrato a completa disposizione del clan”. Si parte dal voto di scambio: il gruppo mafioso, infatti, “ha pubblicamente e palesemente sostenuto la campagna elettorale di alcuni esponenti politici locali”. Una vicinanza evidente anche dalle esternazioni che i vertici del sodalizio hanno pubblicato in rete sulla vittoria elettorale incassata a maggio 2015.
Voucher, rifiuti, alloggi popolari: i presunti favori
Nella proposta di scioglimento si fa poi riferimento all’assegnazione di contributi economici e voucher per prestazioni lavorative occasionali avvenuta con “procedura viziata”, ossia dopo un sorteggio pubblico che si svolgeva alla presenza di dipendenti del Comune o di soggetti non identificati. Tra i beneficiari, i soliti esponenti della criminalità organizzata, loro familiari o persone frequentate abitualmente dai sodali. Il prefetto Palomba ha descritto l’impegno dell’amministrazione ad assumere appartenenti al clan presso la ditta che gestisce la raccolta dei rifiuti solidi urbani del Comune.
Anche la commissione d’indagine ha messo in luce “le discutibili modalità di affidamento del servizio di igiene urbana” a una ditta che si è aggiudicata l’appalto alla fine di un procedimento che si era concluso a favore di un’altra impresa, la cui offerta è stata poi ritenuta anomala dalla commissione di gara. E, sempre, in tema, c’è la questione delle assunzioni del capoclan e di due sodali all’interno della stessa ditta, dal gennaio 2010 (poco prima dell’insediamento del sindaco, all’epoca al suo primo mandato). I tre sono stati poi stabilizzati il 3 aprile 2013, cosa che ha comportato “un aumento del costo annuale del servizio”. Si è passati dai 945mila euro del 2012 (con 27 dipendenti a tempo indeterminato) a un milione e 45mila euro del 2013 (con 33 dipendenti), per un costo di 100mila euro per l’ente. Tuttora l’impresa in questione svolge la propria attività grazie a diverse proroghe, disposte dal Comune con ordinanze sindacali e delibere di giunta in attesa delle procedure di gara dell’ambito.
Ma il Comune non avrebbe fatto nulla nemmeno per contrastare l’occupazione abusiva degli edifici pubblici, permettendo anzi che esponenti del clan utilizzassero senza alcun diritto gli alloggi popolari. Il sindaco avrebbe, invece, “requisito con propria ordinanza alcuni beni, destinandoli a soggetti che non rientravano nella graduatoria ufficiale degli aventi diritto”. Tra queste persone, anche un pregiudicato che era solito frequentare il clan. Ci sarebbero, poi, stati dei contatti tra l’amministrazione e il sodalizio affinché Marco Antonio Giannelli potesse riciclare il denaro sporco in attività commerciali, attraverso un prestanome.
E mentre il 10 gennaio 2016, in occasione di un incontro di calcio al campo sportivo comunale, un gruppo di tifosi ha inneggiato slogan in favore del vicesindaco che era stato arrestato poche settimane prima, il sindaco e alcuni assessori si sono guardati bene dal partecipare alla marcia per la legalità, organizzata a Parabita in concomitanza con l’incontro di calcio ed alla quale erano invece presenti i consiglieri di minoranza e tre di maggioranza.