Nel corso della sua visita all’Università degli Studi di Napoli Parthenope, la ministra Valeria Fedeli ha annunciato «risorse importanti e misure innovative per rafforzare l’organico di ricercatrici e ricercatori e professoresse e professori, per promuovere il diritto allo studio e valorizzare il merito». Ha anche aggiunto che a breve si concluderanno i due piani straordinari varati con la Legge di Stabilità per il 2016 per l’assunzione di 861 ricercatori universitari e di 216 ricercatori negli enti pubblici di ricerca. Se da un lato si tratta di una boccata di ossigeno al sistema universitario che necessita con urgenza di nuove forze per non essere condannato ad un inesorabile declino, dall’altro si pone la questione delle modalità di reclutamento dei ricercatori.

Non passa giorno senza che la stampa, i media e i social diano notizia di casi di aggiramento delle regole nei bandi, di concorsi non trasparenti e di condotta arbitraria delle commissioni, comprese quelle delle abilitazioni nazionali che hanno il delicato compito di selezionare chi potrà aspirare a diventare docente dell’università italiana. In questo quadro ha sollevato numerose polemiche la questione dei profili per i bandi di concorso dei ricercatori a tempo determinato di tipo b che, se in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, dopo tre anni possono essere assunti come professori associati. Ciò che ha suscitato ampia discussione e azioni legali riguarda i cosiddetti bandi “anomali” che delineano il profilo del candidato “ideale” a ricoprire quel posto. Le competenze e i titoli richiesti sono così specifici e particolareggiati che, trattandosi quasi di una sorta di “radiografia” del candidato in pectore, è possibile indovinare, senza essere maghi, il nome del vincitore.

Questa “anomalia” non soltanto scoraggia la partecipazione alla procedura di valutazione di altri candidati, che magari, pur in possesso di attività scientifiche di elevatissimo livello, non hanno la peculiare preparazione richiesta dai bandi, ma disattende anche l’art. 24, comma 2 della Legge 240/2010 che stabilisce con chiarezza che sia i bandi sia i regolamenti degli atenei devono garantire la più ampia partecipazione di concorrenti e non invece, come accade, limitare e ridurre sino all’osso il numero degli aspiranti. Ed infatti, è sufficiente avere un po’ di pazienza e analizzare i dati per rendersi conto che da nord a sud non è raro trovare concorsi per ricercatore nei quali partecipa un solo candidato. Non che non ci siano ricercatori con la formazione nel settore scientifico disciplinare del posto messo a concorso: chiunque abbia un po’ di familiarità con le “consuetudini universitarie” sa bene che le possibilità di vincere con questo tipo di bandi sono praticamente nulle.

Secondo quanto stabilito anche dalla Carta europea dei ricercatori e dal Codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori adottati dalla maggior parte degli atenei italiani, molti dei quali per questo vengono accreditati come “Istituzioni europee” e ricevono il logo “HR Excellence in Research” esibito come una medaglia nei siti web, dovrebbero essere garantiti sia il rispetto dei criteri di trasparenza del processo di selezione e di valutazione al fine di scegliere gli studiosi più qualificati e con migliori competenze e attitudini alla ricerca e all’insegnamento sia la  parità di trattamento dei candidati, soprattutto nella prospettiva della creazione di un «mercato del lavoro europeo attrattivo, aperto e sostenibile per i ricercatori con l’obiettivo di offrire condizioni di lavoro eque ai ricercatori e di contribuire allo sviluppo dello Spazio europeo della ricerca».

Ma l’“anomalia” non si ferma soltanto ai bandi. Tra le “consuetudini universitarie” si fa sempre più spazio un’altra “anomalia”, se possibile, ancora più insopportabile della prima perché manifesta una condotta che non è paragonabile a nessun altro ente pubblico. In alcuni concorsi sia per ricercatore che per professore associato le commissioni sono formate da membri che non solo hanno una consolidata collaborazione scientifica con i candidati e sono stati tutor della loro tesi di dottorato, ma hanno anche avuto un ruolo determinante nell’attività di ricerca e di didattica, e addirittura risultano cofirmatari di pubblicazioni e presenti in progetti comuni.

Trattandosi di concorsi pubblici, le commissioni dei concorsi universitari dovrebbero garantire i principi costituzionali (art. 97) recepiti e sviluppati nella legge 241/1990 (art. 1 e art. 6 bis che ha normato il principio in materia di “conflitto di interessi”) ed essere composte da membri che possano tutelare la parità di trattamento fra i diversi aspiranti ad un posto pubblico. Numerose sentenze (Tar Lazio, Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Molise ecc.) si sono espresse per richiamare all’obbligo di astensione del commissario che si trova in una situazione di incompatibilità al fine di non viziare e rendere nulle le operazioni concorsuali. Secondo l’art. 51, comma 3 del codice di procedura civile il conflitto di interessi si verifica, «in tutte le ipotesi di assiduità nei rapporti personali, scientifici, lavorativi, di studio, rispetto ad un altro concorrente, in misura tale che possa determinare anche solo il dubbio di un sostanziale “turbamento” o “offuscamento” del principio di imparzialità».

Ed invece pare proprio che questo “trend” a formare commissioni favorevoli (e illegittime) per “blindare” il solo candidato prescelto si sia diffuso a tal punto che non stupisce la quasi totale assenza nei concorsi di ricercatori provenienti dall’estero sfiduciati dal sistema italiano che non lascia margini al loro inserimento e ciò che è stato evidenziato in un recente articolo: l’alto tasso di corruzione ha fatto dell’Italia un caso studio di discriminazione e di favoritismo nel reclutamento universitario.

Per gli esclusi non resta che arrendersi oppure avviare un ricorso presso gli organi di giustizia amministrativa. Non è raro che, come è capitato ai ricercatori dell’Università di Tor Vergata, la reazione contro chi “osa” ribellarsi al “sistema” è la minaccia di ostracismo, di messa al bando e di annientamento.

Se nel corso degli ultimi anni la carenza di fondi ha dato un duro colpo all’università pubblica, non si può non considerare che, oltre agli investimenti, il sistema universitario necessiti di un sussulto e un cambiamento di rotta verso il rispetto della legalità. C’è da chiedersi se in un Paese in cui la corruzione è seriale, provoca l’espulsione di chi non si adegua, ed è contagiosa e organizzata tanto da minare le fondamenta della società civile, l’università, come luogo preposto a generare sapere e bellezza, sarà capace di assumere quel ruolo di guida indispensabile al rilancio e alla ri-nascita.

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