Politica

Consip, una gara tra spregiudicati all’ombra del gattopardismo renziano

Gli ultimi tasselli del puzzle giudiziario Consip registrano accanto al silenzio eloquente di Alfredo Romeo, imprenditore dai contatti politici trasversali quanto ravvicinati con la politica, anche la controffensiva della difesa di Tiziano Renzi nei confronti di Luigi Marroni, amministratore delegato della mega centrale di appalti, nonché super testimone e motore dell’inchiesta che siede tuttora sulla sua poltrona.

Per quanto riguarda Romeo, in custodia cautelare in carcere per corruzione, e che si era definito alla vigilia dell’interrogatorio “vittima di una strumentalizzazione all’interno di un’aspra contesa politica” ci si sarebbe aspettati, stando alla logica, che sarebbe stato ansioso di raccontare ai magistrati come “fosse stato emarginato” dal losco giro dell’assegnazione degli appalti milionari, a carico dei cittadini, e di essere “stato fregato” per usare l’espressione colorita dei suoi difensori. Invece, seguendo un’inusuale quanto surreale linea difensiva costruita con zelo e accuratezza dai suoi legali, estensori di una corposa memoria difensiva, tanto lui è stato “prudentemente” silente avvalendosi della facoltà di non rispondere anche  in vista degli sviluppi delle feroci polemiche tra renziani e l’ex saggio di Napolitano Gaetano Quagliariello, destinatario come Matteo Renzi di un cospicuo finanziamento da parte di Romeo, tanto loro sono stati loquaci.

La raffica di dichiarazioni ed  il presenzialismo nei salotti televisivi si sarebbero resi necessari per compensare “il riserbo” del loro assistito e per “riequilibrare” l’immagine distorta del “grande corruttore” creata dal “tritacarne mediatico”, come ha tenuto a ribadire l’avvocato Vignola da Bruno Vespa,  precisando che comunque si sarebbe trattato di “una corruzione da niente”.  Tutt’al più per quei 100mila euro in modeste tranches mensili da 5mila euro all’architetto Gasparri, già accertata dall’inchiesta, si potrebbe parlare di “consulenze improprie” e comunque, secondo i difensori, mancherebbero riscontri obiettivi di passaggio di denaro ed i cosiddetti pizzini sarebbero inutilizzabili come prove. Inoltre, e non si tratta di una precisazione secondaria, il loro assistito in perfetta coincidenza con quanto affermato da Tiziano Renzi nell’interrogatorio di venerdì scorso “non avrebbe mai incontrato il padre dell’ex presidente del consiglio né nessun esponente dell’entourage renziano”.

Alfredo Romeo è un imprenditore potente, navigato, che fa offerte molto mirate ad ogni interlocutore e che come risulta dall’ordinanza di custodia cautelare “parla sempre di soldi e di appalti”, molto abile nel barcamenarsi con ottimi risultati e in presenza di qualsiasi governo con referenti politici di ogni provenienza, da Claudio Velardi, già testa d’uovo di D’Alema a palazzo Chigi, a Italo Bocchino ex pupillo di Gianfranco Fini.

Intanto a poche ore di distanza dal silenzio denso di messaggi di Alfredo Romeo, la difesa di Tiziano Renzi che, secondo i pm insieme all’amico Carlo Russo sfruttando le relazioni intessute con l’a.d. Marroni in forza del suo cognome “si faceva promettere indebitamente da Romeo utilità a contenuto economico”, vuole sentire come testimone l’uomo a capo della Consip all’interno delle indagini difensive.

Lo scopo della richiesta è scontato: incunearsi nella contraddizione di un testimone cruciale riguardo l’accusa non piccola di rivelazione di segreto e favoreggiamento per il ministro, amico e braccio destro di Matteo Renzi Luca Lotti e per il generale Emanuele Saltalamacchia ma rilevante anche per quella a Renzi senior, che rimane saldamente al suo posto, riconfermato dal governo fotocopia di Gentiloni.

Il tentativo dei difensori di Renzi padre, che nell’interrogatorio di oltre tre ore aveva negato qualsiasi incontro con Marroni e ammesso un unico contatto con lui per avere la statua della Madonna di Medjugorje nell’ospedale pediatrico Meyer, di far ritrattare le dichiarazioni puntuali dell’ad Consip ai magistrati su soffiate, ricatti, pressioni, da parte dei compagnucci della parrocchietta renziana mira al cuore dell’inchiesta. Infatti se Marroni nella scomodissima posizione di testimone d’accusa messo a capo di un centro di potere senza eguali nella storia repubblicana dal figlio di uno degli accusati non confermasse le dichiarazioni rese ai pm, entrambi i filoni dell’inchiesta, sia quello sulla soffiata istituzionale che dall’inizio ha azzoppato le indagini sia quello centrale sul mega appalto da 2,7 miliardi su cui si sono concentrati gli appetiti e i traffici connessi potrebbero finire nel nulla.

Ed è facile immaginare il coro di sconcerto, riprovazione e delegittimazione della magistratura da parte di una politica allo stremo, sempre più cialtrona e sempre più incattivita con “certi magistrati”  tra cui, in primis, il “recidivo” Henry Woodcock su cui si è già concentrato preventivamente, come da copione, Vittori Sgarbi.     Al di là degli esiti giudiziari e delle conseguenze politiche questo intrigo di affarismo, di traffici, di pressioni, ricatti, soffiate all’ombra delle parrocchie toscane e nelle stanze del potere romano occupato per mille giorni da una brigata di quarantenni rampanti ed arroganti che volevano rottamare e rischiano di essere rottamati dai maneggi paterni è un’immagine di estrema decadenza, quasi una declinazione paesana del “se vogliamo che tutto rimanga come è bisogna che tutto cambi”.  

E se questo gattopardismo del fu Giglio Magico è meno pittoresco di quello descritto da Tomasi di Lampedusa Matteo Renzi non merita di essere paragonato all’affascinante arrampicatore Tancredi. In molti hanno giustamente osservato che dalla batosta del 4 dicembre non ha imparato nulla e che non è cambiato. Ma direi che con la spacconata demagogica ad 8 e mezzo sulla “pena raddoppiata per il padre”, il refrain penoso su Grillo “un pregiudicato che fonda un partito” ed il nervosismo per i 9 anni per Verdini “aspetto la domanda su Jack lo Squartatore”, ha dimostrato di essere rovinosamente peggiorato e avvitato su se stesso.