E’ di oggi la notizia, lanciata dal sito dell’associazione di avvocati Rete Lenford – Avvocatura per i diritti Lgbti (di cui faccio orgogliosamente parte), di un provvedimento del tribunale dei minori di Firenze che ha riconosciuto, in Italia, un’adozione pronunciata in Inghilterra a favore di due genitori dello stesso sesso. Si tratta di una decisione importante per il panorama giuridico italiano (ma non solo), almeno per due ragioni.
Per la prima volta un giudice italiano afferma che è possibile riconoscere un provvedimento di adozione estero a favore di una coppia omosessuale. L’unico precedente in materia, fondamentalmente ignorato dalla dottrina italiana perché poco noto e forse anche per la sua estrema ovvietà all’epoca in cui fu reso, è costituito da una pronuncia del tribunale dei minori di Brescia del 2006, che dichiarava l’adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale contraria all’ordine pubblico internazionale, semplicemente perché il nostro Paese non riconosce il matrimonio omosessuale.
Dieci anni dopo, da Firenze arriva l’esito opposto: l’adozione di due bambini in Inghilterra da parte di una coppia gay non è contraria all’ordine pubblico.
Si badi bene: quando parliamo di ordine pubblico internazionale – a conferma del fatto che in ambiti come l’adozione di minori, la definizione di famiglia e il riconoscimento giuridico delle persone omosessuali non è mai opportuno né utile fermarsi allo slogan o alla petizione di principio, ma è necessario adeguarsi a un certo tecnicismo – ci riferiamo a un concetto ben preciso del diritto, una nozione che è in grado di impedire il riconoscimento, nel nostro ordinamento, di valori, relazioni o atti provenienti da altri Paesi. L’ordinamento italiano, infatti, non costituisce una cittadella inespugnabile, ma piuttosto un castello i cui cancelli sono sempre aperti verso l’esterno e i cui guardiani (i giudici) sono pronti ad accogliere valori, relazioni o atti che nel nostro Paese non esistono, anche quando non fanno parte della nostra cultura o del nostro modo di concepire la vita della società.
Tale apertura, tuttavia, è consentita solo finché questi valori, relazioni o atti non attentano a quelli che la giurisprudenza chiama “principi etico-giuridici”, ossia quei valori sui quali il nostro ordinamento non è disposto a transigere, sui quali insomma non c’è compromesso. Per cambiare metafora, il nostro Paese è come una porta girevole: a volte va bloccata perché ciò che essa consente di far entrare è inaccettabile e pericoloso. È insomma, per usare le parole della Cassazione, oltre la nostra “soglia di salvaguardia”.
Dove si collochi questa soglia all’interno dell’ampio spettro di valori condivisi dalla nostra comunità è oggetto di una letteratura che possiamo dire sterminata. Ma qualcosa da dire c’è.
Ora, il messaggio offerto dal tribunale fiorentino, a pari dell’ordinanza della scorsa settimana della Corte d’Appello di Trento e di una serie sempre più abbondante di decisioni giudiziarie, è che l’omogenitorialità non si pone al di fuori del nostro diritto, ma ne è parte integrante e, per tale ragione, non è contraria all’ordine pubblico internazionale. Valgono qui le considerazioni che sono ormai entrate nella quotidianità dei repertori giudiziari:
– che, statistiche alla mano, i bambini non subiscono alcun danno nel vivere e crescere nell’ambito di famiglie composte da persone dello stesso sesso;
– che queste famiglie non possono essere discriminate, perché il loro contributo alla società e la loro dignità non possono essere messi in discussione;
– che non esiste un solo modello di famiglia, ma tanti modelli quanti è in grado di concepirne la società umana, attraverso le relazioni, l’amore, l’affetto, la vicinanza e l’aiuto nella pratica quotidiana, con tutte le sfide e gli ostacoli che essa pone;
– che la nostra Costituzione e la nostra legge non possono essere interpretate come delle trincee nelle quali sotterrarsi in attesa dell’arrivo del nemico, ma come una torre, la più alta e possente nel nostro castello, dalla quale possiamo osservare tutto, compreso ciò che non ci piace ma che nonostante ciò continua a esistere ed anzi deve continuare a esistere in un Paese plurale, democratico e – ancora una volta – aperto.
Il giudice si mette insomma nei panni dei bambini. Due minori (non ne conosciamo l’età, ma potrebbe trattarsi di adolescenti, essendo l’adozione da parte di coppie gay e lesbiche in vigore in Inghilterra dal 2004), adottati in Inghilterra da due padri che li amano e dei quali sono giuridicamente figli in Inghilterra, devono confrontarsi con la capacità dell’Italia di aprirsi alle famiglie omogenitoriali. Ecco la sfida. Quella stessa sfida che la politica, con la legge sulle unioni civili che ha stralciato le norme sull’adozione, ha rifiutato brutalmente di accettare, sulla pelle delle decine di migliaia di figli delle famiglie arcobaleno che popolano il nostro Paese.
E la risposta, per quanto articolata e complessa, non può essere che una sola: che, come scrive il tribunale, “deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli”. Per questa via, l’adozione deve essere riconosciuta. Perché questa è anzitutto una battaglia dei bambini. Una battaglia che nessuno può permettersi di perdere.