Qualche anno fa lessi un’intervista in cui Matteo Renzi dichiarava che alla moglie erano state offerte ‘cattedre universitarie’ ma che la consorte le aveva rifiutate. Renzi aveva detto al Corriere della Sera, parlando della moglie: “Sa quante cattedre universitarie finora ci hanno offerto? Eeeh… Ma noi siamo gente perbene”. Secondo Renzi, fare il professore universitario è nella disponibilità non si sa bene di chi, che può deciderlo al di là di concorsi, abilitazione nazionale, curriculum, pubblicazioni, titoli. Ed è una cosa brutta, se si è sentito in dovere di specificare che la moglie ha rifiutato perché loro sono “gente perbene”, segno che accettare quelle offerte (provenienti da chi? Per quali cattedre?) sarebbe stata cosa da gente poco perbene.
Ma se avesse ragione lui? Non è che il reclutamento universitario funziona secondo criteri di distribuzione di risorse pubbliche del tutto discrezionali, quando – più di quanto si possa immaginare – non del tutto arbitrari? Non sarà forse che curriculum, pubblicazioni, abilitazione scientifica nazionale possono non essere necessari per creare performativamente il professore universitario? Come nel principio di Tappo Tombo in Alice nel paese delle meraviglie, non è importante cosa significhi una parola, è importante chi ha il potere di stabilirne il significato. Performativo si riferisce al ‘fare cose con le parole’: in questo caso trasformare una persona in un professore universitario ‘con la sola imposizione delle mani’.
Ora la ‘strana’ (ma in verità nient’affatto strana) idea di cosa sia il lavoro di docente universitario sembrava aver rifatto capolino nell’intervista dell’ex premier a Porta a Porta. Pare Renzi abbia dichiarato che lui comunque è in grado di trovare un modo di sbarcare il lunario, per esempio facendo il professore universitario. Poi qualcuno mi ha fatto notare che la notizia circolava da qualche tempo, e che l’università in questione è la sede italiana, fiorentina, della Stanford, che è privata e di fatto assume chi vuole. Cosa del tutto legittima. Certo, ma quel che preoccupa è che nei disegni di Renzi quello – l’università che assume chi vuole – avrebbe dovuto servire da modello per l’università italiana: assumere chi si vuole. E pazienza se il professor Renzi non ha titoli accademici, in fondo – si dirà – qualcosa da dire ce l’ha, e ha la chiacchiera facile.
Ma, tornando all’università pubblica italiana, il concorso è la procedura che avrebbe dovuto rappresentare la garanzia di imparzialità e trasparenza e che assieme alle elezioni costituiva l’architrave di una moderna democrazia. In verità, come è noto, nell’università il concorso ha raramente svolto quella funzione, ma è stato la foglia di fico per coprire la cooptazione, che viola il principio di terzietà (nessuno deve essere giudice in causa propria, ovvero nessuno dovrebbe giudicare i propri allievi). Qualcuno dice “finiamola con questa ipocrisia: cancelliamo il concorso e lasciamo che le università assumano chi vogliono rispondendo delle scelte fatte”. Lo ha detto tempo fa il costituzionalista Michele Ainis all’Espresso: “La cooptazione non è né un peccato né un reato”.
Eh già: invece di fare concorsi ‘veri’ (cioè aperti, imparziali, non predeterminati) progettiamo di levarli di mezzo, dando così la stura a una cooptazione senza più neanche il formale ‘ostacolo’ del concorso. Che, giova ricordarlo, è previsto dalla Costituzione poiché si distribuiscono con esso posti pubblici, dunque risorse pubbliche. E si sa, il concorso ha un senso solo se esso si svolge secondo criteri di terzietà, trasparenza, imparzialità. Chimere. Allora perché Renzi non può fare il professore? Rispetto a certe monografie anche Tra De Gasperi e gli U2 non sfigurerebbe…