L’approvazione della legge delega sul reddito di inclusione segna una tappa storica del welfare italiano, con l’introduzione di una prima misura a carattere formalmente universalistico di contrasto alla povertà. E’ un atto politico simbolicamente molto rilevante che coglie lo spirito di un tempo in cui le fratture sociali hanno moltiplicato le situazioni di indigenza e reso sensibile la gran parte della popolazione rispetto al tema della lotta all’esclusione sociale.
Si può dire che la legge delega sia un atto politico strumentale con il quale la maggioranza tenta di togliere all’agguerrita opposizione del Movimento 5Stelle l’arma del reddito minimo universale come strumento per la raccolta di consenso elettorale? I processi alle intenzioni sono sempre difficili da svolgere. Probabilmente la disponibilità del governo a finanziare in modo importante il reddito di inclusione è dettata anche dall’agenda politica e dalla necessità di aumentare l’appeal del governo di fronte a un numero crescente di cittadini esausti per le conseguenze della crisi.
Ma non bisogna dimenticare che la spinta propulsiva principale data alla proposta di reddito di inclusione non è arrivata dal governo, ma dall’Alleanza contro la povertà, il primo cartello di associazioni e enti che in Italia si è organizzato in modo trasversale per ottenere una misura di intervento destinata a rispondere ai bisogni essenziali di quella parte sempre più vasta del paese che soffre di una condizione di povertà assoluta. L’astensione del Movimento 5Stelle (con l’esclusione dell’opposizione di pochi fuoriusciti) che pur sul tema del reddito minimo garantito ha costruito una parte importante del suo successo politico recente, dimostra che oltre a ragionamento di convenienza elettorale la proposta avanzata dall’Alleanza aveva basi solide per essere condivisa.
Ma ora che la Legge delega sembra avere imboccato la sua strada per la definitiva approvazione, si può considerare vinta la sfida? Oppure siamo, come spesso in Italia è accaduto, a un primo passo che, lungi dal chiudere la partita, apre nuovi interrogativi e impegna il governo nell’affrontare nuove sfide rispetto alle quali le soluzioni sono in larga parte ancora tutte da costruire?
I nodi da sciogliere sono tre. Il primo riguarda la messa a regime della misura. Per andare a regime il finanziamento previsto dalla legge (1 miliardo e 600 milioni per il 2017 e un altro miliardo per il 2018) dovrebbe essere almeno triplicato. In base alle stime attuali circa un povero su tre potrà accedere con tale stanziamento al reddito di inclusione, mentre per garantire un intervento sull’intera platea degli individui in condizione di povertà assoluta servirebbero più di 4 miliardi e mezzo. Fino al 2018 i finanziamenti sono garantiti, ma dopo cosa accadrà? Ci saranno ancora le risorse per sostenere la misura? Si riuscirà a reperire ulteriori risorse? Oppure la misura farà la fine del Fondo nazionale per le politiche sociali finanziato nel 2000 con oltre due miliardi di euro e progressivamente ridotto a poco meno di 100 milioni?
Il secondo nodo è relativo alla messa in pratica della misura. Dopo diverse tergiversazioni, il governo ha accettato di legare parte dei trasferimenti economici alla costruzione di un sistema di sostegno all’inclusione sociale a livello locale. Ma il problema della costruzione di un sistema di servizi di sostegno all’inclusione non è risolvibile con le sole risorse della misura del reddito per l’inclusione. Dopo anni di tagli al sociale, il welfare locale è in molte regioni in stato di grave affanno. Come dimostra l’esperienza del reddito minimo di inserimento sperimentato con il Dlgs. 18 giugno 1998, le misure economiche di contrasto alla povertà rischiano in assenza di strumenti e servizi finalizzati all’inclusione di trasformarsi in elargizioni economiche che cronicizzano lo stato di indigenza o peggio ancora sono utilizzate per scopi impropri e strumentali dai beneficiari. Quindi, per rendere efficace la misura è indispensabile che a essere oggetto di finanziamento siano anche i servizi del welfare locale e sia invertito il trend che ha portato in molte parti del paese a organici ridotti di operatori dei servizi e a riduzioni consistenti di spesa.
Il terzo punto della questione riguarda, infine, l’economia complessiva degli investimenti sociali all’interno dei quali si colloca la misura del reddito di inclusione. E’ di questi giorni la notizia del taglio al Fondo nazionale per le politiche sociali e al Fondo per la non autosufficienza. Il welfare sociale italiano è secondo la maggior parte degli osservatori caratterizzato da forti iniquità, da un eccesso di trasferimenti economici e da un sottodimensionamento grave dei servizi. Per togliere risorse da trasferire ad altre voci di spesa serve un progetto complessivo di riorganizzazione e rifinanziamento della spesa sociale. A oggi questo disegno è quasi completamente assente e il welfare sociale nazionale rimane fortemente sperequativo e diseguale. Le singole misure e i singoli interventi a favore di fasce marginali di popolazione vanno dunque salutate positivamente, ma non devono essere l’alibi per non affrontare la questione più generale della spesa sociale.
Il welfare sponsorizzato negli ultimi tre anni dal governo Renzi è stato caratterizzato da elargizioni, bonus e dichiarazioni di spassionata fiducia nel ruolo attivo del mercato, degli investimenti sociali e nella capacità di auto-organizzazione della società civile. Una sorta di terza via blairiana per la riforma del welfare nazionale. Venti anni dopo l’esperienza del New Labour, la Gran Bretagna è il paese con il più alto livello di diseguaglianza in Europa. Speriamo che il tema della riorganizzazione della spesa sociale pubblica che la legge delega sulla povertà inizia a toccare sia affrontato questa volta con una prospettiva di sistema e di lungo periodo, e il tempo delle opulente mance pre-elettorali e delle promesse non mantenute sia definitivamente superato.