A febbraio hanno dovuto sgomberare il loro accampamento nel Nort Dakota, allestito per protestare contro l’oleodotto voluto dall’amministrazione Trump. Ma i Sioux non si arrendono e arrivano a sfilare sotto la Casa Bianca, in una marcia – ribattezzata Native Nations March on Dc – scandita da colpi di tamburi e antiche grida di guerra per proteggere il proprio territorio. Migliaia di indiani, molti con i visi colorati, i copricapi piumati e i tradizionali abiti di pelle, hanno invaso la capitale per quattro giorni trasformando il Mall – il viale che va dal Campidoglio al Lincoln Memorial – in un accampamento animato da falò notturni e sfilando sabato 11 marzo nelle vie della città sino alla residenza del presidente. E decidono di restare sul piede di guerra, dopo un braccio di ferro di quasi un anno costato loro arresti, scontri e denunce.
“E’ una marcia contro l’ingiustizia, continueremo la nostra protesta pacifica. Le popolazioni indigene non possono sempre essere messe da parte a vantaggio degli interessi aziendali o dei capricci del governo”, ha detto all’Ansa Dave Archambault, rappresentante della tribù Sioux Standing Rock, la più famosa tribù indiana del Nord America, che ha guidato tutte le altre nel corteo. “Siamo venuti qui contro l’aggressione alle nostre risorse naturali, contro la profanazione della sacralità delle nostre terre, dove sono sepolte generazioni di nostri antenati che vi hanno vissuto cacciando i bisonti“, spiegava Ahiga, che indossava un copricapo di piume gialle e nere. “Gli oleodotti sono un rischio, in caso di incidente potrebbero inquinare le nostre falde acquifere“, gli faceva eco Macawi, un’anziana Sioux che esibiva un cartello con la scritta Water is life.
Molti attaccavano direttamente Trump: “Ha firmato l’ennesimo esproprio contro gli indiani d’America, come fece Andrew Jackson“, diceva Kohana, evocando il famigerato Indian Removal act del settimo presidente (democratico) americano. È stato il tycoon infatti a riavviare la costruzione di Dakota Access e Keystone XL, i due oleodotti bloccati da Obama sull’onda delle proteste indigene e degli ambientalisti. La marcia è partita dalla sede del Genio Civile e si è snodata lungo un percorso di circa tre chilometri, poco dopo una debole nevicata. Nel fiume di folla pacifico, alimentato da molti attivisti, è spuntato anche un lungo e grande serpente nero, simbolo della pipeline oggetto della protesta: “Violare l’ambiente avvelena l’uomo”, spiegava uno dei nativi che lo teneva sospeso in aria.
Tra chi seguiva per lavoro la manifestazione anche due italiani, Andrea Bancone ed Elisabetta Abrami, che stanno girando un documentario per la New York Film Academy (grazie al progetto Torno Subito della Regione Lazio): con loro c’è anche la protagonista, una donna nativa americana veterana dell’Us Army (Iraq, Afganistan), che lotta contro le sue paure per ritrovare di nuovo conforto nel mezzo di un conflitto tra la sua patria americana ed il suo popolo nativo.