C’è poi il flusso di coscienza di Buzzi, l’autodafè di quella classe dirigente che Roma l’ha governata dagli anni ‘90 in poi. Tutto andava bene fino al maggio 2008, quando in Campidoglio arriva Gianni Alemanno. Già la notte della vittoria davanti al Marco Aurelio appaiono le braccia tese, i saluti fascisti. Tutto, in una notte, cambia. “Prima delle elezioni – ha raccontato Buzzi in aula alla terza udienza del suo esame – chiedemmo a Veltroni di ‘mettere in sicurezza’ le cooperative. Loro sottovalutarono all’inizio, dicevano ‘Tranquilli, tanto vinciamo noi’. Noi, però, li convinciamo e ci facciamo dare un affidamento per 18 mesi”. La campagna elettorale della destra romana aveva, però, puntato i fari proprio sul mondo delle cooperative sociali: “Gianni Alemanno fece la campagna elettorale promettendo alle imprese aderenti a Federlazio che la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata quella di estromettere le coop sociali; noi avevano levato la gallina dalle uova d’oro alle imprese. E così fece”.
È un momento chiave per politica romana, ed è uno degli architravi dell’inchiesta Mafia capitale: su questo terreno, di difficoltà di relazione con il mondo politico del Campidoglio, si sarebbe innestato – secondo l’accusa – il link con il mondo “nero” di Massimo Carminati e la ricerca dei nuovi referenti, saldando un’alleanza rosso-nera. “Il 16 novembre di quell’anno facciamo la prima manifestazione sotto il Campidoglio”, racconta Buzzi. È un crescendo: manifesti con il titolo “La febbre Alemanno”, scioperi della fame e, alla fine, uno striscione trainato da un aereo “pagato da me, dalle coop, ma con l’appoggio del Pd, che chiesi a Maroni”. Buzzi arriva al punto di acquistare una pagina de Il Riformista per una lettera aperta al sindaco e a presentare un esposto in Procura. Alla fine del 2009 si trova però lui sotto la lente di un’indagine, con una perquisizione in una delle sede sociali da parte della Finanza e un interrogatorio da parte del pm Paolo Ielo, due anni prima dell’avvio delle indagini su mafia capitale.