Ha pagato, accidenti se ha pagato. Senza sconti. E’ entrato in carcere, ha scontato la sua pena, ha vissuto sulla sue pelle le proprie pene, quelle di coscienza, più difficili da assolvere. All’inizio era un sorvegliato speciale, guardato a vista 24 ore su 24, avevano paura che si suicidasse come Cagliari e Gardini. Invece quattro anni a San Vittore e sei mesi ai servizi sociali sono stati per lui la rinascita. E’ uscito un uomo migliore.

Oggi Sergio Cusani è sereno, non ha conti in sospeso con un passato ingombrante, ha seguito l’istinto del gentiluomo del sud. Non si è sottratto alla giustizia, poteva scappare all’estero, aspettare che i reati cadessero in prescrizione, o invocare l’assoluzione perché nel frattempo le leggi cambiavano… Invece il suo fil rouge è stato: “Mi assumo le mie colpe e non cerco di acquisire meriti per alleggerire la mia zavorra giudiziaria accusando gli altri sui quali scaricare parte delle responsabilità”. Rivede ogni tanto i suoi ex compagni di scuola, quelli del Liceo Umberto di Napoli, che sono poi lo scrittore Erri De Luca e il filosofo Sebastiano Maffettone, per ricordare gli anni della imagination au pouvoir, della rivoluzione studentesca, delle barricate. Quando davvero si voleva cambiare il mondo.

Uscito dal carcere Cusani ha rifiutato il ruolo (dell’arcistar) di grillo parlante, è rimasto fedele al suo credo: non ha mai rilasciato interviste (e anche alla sottoscritta continua a negarla benchè ci leghi una verace amicizia da ex-umbertini), non ha scritto memorie, rifiuta di andare in televisione. Ha rifiutato ingaggi strapagati ( benché non navighi più nell’oro e nella bambagia di quegli anni). Nessun tesoretto da parte, vive oggi solo del suo lavoro di consulente per amici, gruppi privati e per il sindacato, la Fiom-Cgil. A mo’ di oracolo viene spesso interpellato sulla crisi dei grandi gruppi industriali.

Per lui Mani Pulite è un capitolo chiuso, fino a quando se lo è ritrovato di fronte, 25 anni dopo. Il suo accusatore (ma non era solo lui), che firmò la richiesta d’arresto, Gherardo Colombo, gli tende ora la mano, una lunga stretta. Uno sguardo, dal profondo, carico di parole non dette. Prima di cominciare il dibattito con gli studenti di quinto liceo alle Opere Sociali Don Bosco di Sesto San Giovanni, i salesiani, fortemente voluto da Famiglia Cristiana.

Non erano ancora nati ai tempi dell’arresto in flagranza di Chiesa, fu il topolino che divorò il dinosauro, un sistema giurassico di mazzette e tangenti accettato da tutti, praticamente “legitimizzato”. Fino ad arrivare a quei 140 miliardi di lire, la madre di tutte le tangenti, si vendeva, obtorto collo, la chimica Enimont allo Stato a quel tempo onnipresente nell’economia. Le privatizzazioni vennero dopo (in diversi casi, allora, quasi saldi di fine stagione). Fu l’inizio della fine. Dopo il suicidio di Raul Gardini, Cusani capì che, tegola dopo tegola, il tetto sarebbe crollato addosso a lui che era il principale consulente del gruppo Ferruzzi-Montedison: il carcere lo aspettava.

Agli studenti spiega: “Il tuo obiettivo è quello e tu, che sei abituato che il fine giustifichi i mezzi, fai di tutto per raggiungerlo. Dopo ho cambiato il mio paradigma. Il fine non giustifica i mezzi, come teorizzava Machiavelli, sono i mezzi a dare senso al limite. L’ho imparato da un grande filosofo italiano: Giorgio Agamben”. Prendo il taxi con Sergio, il tassista lo riconosce. Ancora una stretta di mano di ammirazione. Condita con sense of humor: “Non mi date del santino”. Non ancora. Cusani, ex studente, modello e contestatore della Bocconi, ex enfant prodige della alta finanza, con un bagaglio carico solo di dignità, è diventato un (eroe) personaggio positivo. Camicia di jeans chiusa fino all’ultimo bottone, giacca e cravatta al chiodo, fascino dell’intelletuale scapigliato (sono in molte a chiedermi di volerlo conoscere), quattro figli, si occupa anche dell’Associazione dei Diritti dei Detenuti. Perché, per dirla con Gherardo Colombo: “Non c’è libertà senza responsabilità”.

Twitter @januariapiromal

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