Mi sento sempre intimorito al cospetto dei classici. Confrontarsi con un romanzo contemporaneo è secondo me più facile, incute meno soggezione. Se ne condivide il mondo delle idee. Il linguaggio stesso pende verso un’inclinazione familiare. Ma cosa succede quando si sceglie di misurarsi con un classico? Per ottenere il massimo dall’esperienza l’ideale sarebbe essere padroni del contesto. Eppure non si può sempre conoscere ogni cosa, o saremmo tuttologi annoiati, e non scoveremmo il meraviglioso in nessuna delle nostre scelte.

Ecco quindi che, di tanto in tanto, mi avventuro nella lettura di un libro a me distante, per arricchimento personale, curiosità, ma soprattutto per allontanarmi dai banali sentieri dell’industria. Siamo invasi da novità scadenti, e sovente il lettore occasionale tende a sottovalutare la qualità della scrittura antica. Ecco quindi che qualche tempo fa, con una certa emozione, ho messo le mani su La Via del Vizio, inedito romanzo d’esordio di Bram Stoker, pubblicato da Edizioni Della Sera nella preziosa collana de I Grandi Inediti.

L’autore di Dracula, ai vertici assoluti delle mie preferenze, tornò nelle mie mani non per spaventarmi e avvincermi, costringendomi ancora per tutta la notte a leggere senza mai spegnere la luce, quanto per riportarmi a un’epoca lontana, piena però di tristi legami col nostro presente. Siamo in tempo di crisi, e i rimandi alla vicenda del carpentiere Jerry, e del suo desiderio di offrire un’esistenza migliore alla sua famiglia irlandese, al prezzo di un trasferimento a Londra, sembrano ricordarci che, dalla vittoriana epoca dei fatti, siano ben pochi i progressi che l’umanità abbia saputo fare per emanciparsi da certe orrende consuetudini. Percorrendo La Via del Vizio si sprofonda verso recessi che poco hanno a che fare con le atmosfere per le quali Stoker è divenuto famoso, ma che lo rendono attuale come gli incubi che, ancora oggi, nascono dai medesimi avvilimenti come l’alcol, la violenza, l’incomunicabilità.

Dopo questo bagno di angoscia, sono stato assai lieto di scovare emozioni più allegre, per quanto la cosa possa sembrare bizzarra, nelle pagine di Miseria Nera, da poco in libreria per la stessa collana, che raccolgono molti degli ultimi pensieri di Paul Verlaine.

In quest’opera, vergata durante i numerosi ricoveri cui il poeta decadente ricorreva per ritemprare un fisico perennemente bisognoso di cure, non si riscontra però alcuna concessione ai malesseri che, in capo a poco tempo dall’inchiostro delle prime pagine, lo strapparono a un’ancora giovane vita, incorniciandolo nella stretta descrizione di maledetto. Vi si scopre invece un inaspettato piacere all’osservazione della vita, alle bellezze delle semplicità o della natura. Lo sguardo di Verlaine, che vaga per stanze, strade o paesaggi si mostra sempre affamato, e grato per il sollievo che gli viene all’animo, fin quasi a far sparire i dolori e gli affanni della sua cagionevolissima salute. Camminando così a braccetto col poeta, sembra di rivivere non i giorni, ma proprio i momenti, a contatto con figure e personaggi, ascoltando perfino i pettegolezzi sui vicini di vita, i colleghi di scrittura, i nemici personali, fino a cancellare i pregiudizi sulla personalità di un uomo che si rivela invece divertente.

E così si accede a una Parigi che sembra qui, pur dal crepuscolo dell’Ottocento, non senza risentimento da parte del poeta che, in un momento di forze, raggiunge alcuni amici in Olanda, abbandonando gli ori francesi per i colori fiamminghi.

Ne nasce una trasposizione delle disavventure di salute che portano il poeta a rifugiarsi più volte nei sanatori dell’epoca, e che in alcuni tratti sembra quasi divertito dalle esperienze vivibili in quei luoghi di dolore che, per uno squattrinato, possono rivelarsi ben più gradevoli di molte amichevoli magioni.

Non ho i mezzi per misurare il valore della traduzione ma penso che esalti, in questa descrizione in fin dei conti di esperienze amare, l’utilizzo di quelli che oggi definiremmo tempi comici, che danno alle descrizioni, alle battute e alle considerazioni sulla realtà umana, una ricca profondità emotiva.

Le rappresentazioni fanno così percepire, come in uno sguardo presente, le architetture, le strade, perfino gli odori, e in tutto questo il chiaro muoversi dell’autore, in un’immagine che cozza con quella trasmessa dall’ideale di decadente e maledetto, e che si rivela al lettore per niente abbattuto e fortemente vitale. Fino all’ultimo respiro.

Buon Ottocento!

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Derek Walcott, morto “l’Omero dei Caraibi”

next
Articolo Successivo

Quattordici domande brevi da leggere nel tempo di un caffè: risponde Paolo Fresu

next