Tra 19 senatori dem che – insieme agli altri 24 colleghi assenti – hanno salvato Augusto Minzolini, il suo voto è stato quello che ha fatto più scalpore. Con l’ex vicedirettore del Corriere della Sera, Massimo Mucchetti, dopo il filosofo operaista Mario Tronti e la storica Emma Fattorini, c’è un altro nome che si è schierato a sorpresa a favore dell’ordine del giorno di Forza Italia: quello di Rosaria Capacchione, stimata giornalista anti camorra, cronista di giudiziaria che per i suoi articoli sul clan dei Casalesi è costretta a vivere sotto scorta. Che c’entra la Capacchione con la pletora di senatori che non hanno applicato una legge dello Stato – la Severino – dopo averla approvata? Perché l’apprezzata giornalista antimafia ha contribuito con il suo voto a far rimanere il pregiudicato Minzolini al suo posto?
La risposta l’ha fornita lei stessa in un’intervista all’Huffington Post rilasciata poche ore dopo il salvataggio dell’ex direttore del Tg1. “Ieri mattina – ha detto – abbiamo votato con la fiducia la riforma del processo penale che contiene una modifica del codice di procedura penale. Modifica cioè le modalità del dibattimento in Corte d’appello. Quando si fa il processo d’appello se un giudice pensa di sovvertire il primo grado di giudizio, ad esempio condannare invece di assolvere, adesso si ha l’obbligo di rinnovare il dibattimento. Minzolini è stato assolto in primo grado e condannato in appello senza che venisse rinnovato il dibattimento. Oggi la Cassazione, dopo l’approvazione della riforma del processo penale, avrebbe avuto l’obbligo di annullare la sentenza di condanna perché non c’è stato un rinnovato dibattimento”. Come dire: siccome la Capacchione aveva appena votato una legge che avrebbe modificato lo svolgimento del processo di Minzolini- ormai passato in giudicato – ha deciso di salvarlo dalla decadenza da senatore.
Una giustificazione, quella dell’ex giornalista del Mattino, che ha destato più di qualche perplessità. E per almeno due motivi. Intanto perché dopo l’approvazione con la fiducia da parte del Senato, il ddl di riforma del processo penale dovrà nuovamente passare alla Camera, che – al netto di ulteriori modifiche – dovrà approvarlo in via definitiva. Soltanto da quel momento in poi – anzi soltanto dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale – il ddl Penale potrà essere considerato vigente. Fino ad allora l’approvazione da parte del Senato al quale si appoggia la Capacchione per motivare il suo voto in soccorso di Minzolini varrà davvero poco. C’è poi, però, un altro motivo che annulla completamente la già traballante giustificazione della senatrice del Pd.
La modifica alla quale si riferisce Capacchione, infatti, è quella contenuta all’articolo 22, comma 3, del ddl Penale che modifica le disposizioni in maniera di appello. “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale“, recita la norma. Cioè proprio l’esempio fatto dalla Capacchione con il caso Minzolini: assolto in primo grado e condannato in appello senza che venisse riaperto il dibattimento. “Oggi la Cassazione, dopo l’approvazione della riforma del processo penale, avrebbe avuto l’obbligo di annullare la sentenza di condanna“, dice la senatrice dem, ma è un’affermazione che non risponde al vero. Oggi, infatti, la Cassazione non annullerebbe nulla e non solo perché il ddl Penale, come detto, non è stato ancora approvato. Anche a riforma vigente, infatti, la nuova norma non si potrà certo applicare ad un processo – come quello di Minzolini – già confermato dalla Cassazione nel novembre del 2015.
In alternativa potrebbero beneficiarne anche i 17 imputati condannati dalla corte d’appello di Torino il 10 dicembre del 2013: accusati di fare parte di una “locale” di ‘ndrangheta attiva nelle zone tra Asti, Alba, Bosco Marengo e Novi Ligure, in Piemonte, in primo grado erano stati assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Secondo il ragionamento della senatrice dem, però, avrebbero potuto chiedere l’annullamento del loro processo – prima che ci pensasse la Cassazione ad assolverli in via definitiva, ma per altri motivi- anche due politici: Ciro Caravà e Giovanni Cristaudo. Il primo era sindaco di Campobello di Mazara, in Sicilia, arrestato e processato per mafia: in primo grado fu assolto, poi in appello fu condannato a nove anni di reclusione dopo la riqualificazione del reato in concorso esterno.
Percorso simile per l’ex deputato siciliano Cristaudo, assolto in primo grado con il rito abbreviato, condannato in secondo per concorso esterno a 5 anni. Di procedimenti che sarebbero finiti in fumo secondo l’assioma Capacchione (o assioma Minzolini, che dir si voglia), però, ne è piena la storia giudiziaria italiana. Recente e remota. Da Nicola Chirico, assolto in primo grado per l’omicidio di Cosimo Semeraro e poi condannato all’ergastolo dalla corte d’appello di Brindisi appena il 6 marzo scorso, ad Albert Bergamelli, Jacques Berenguer, Lino Bellicini, cioè la banda dei Marsigliesi: assolti per insufficienza di prove nel processo per la rapina all’ufficio postale di piazza dei Caprettari, nel 1975 a Roma, vennero condannati all’ergastolo in secondo grado nel 1981.
I casi simili in archivio, però, sono molteplici. E qualche volta coinvolgono pezzi di storia della criminalità organizzata italiana: il leggendario Francis Turatello venne assolto dal tribunale per cinque sequestri di persona nel 1979, prima di finire condannato in appello. Il boss di Cosa nostra Luciano Liggio collezionò addirittura due assoluzioni davanti al giudice: quella per l’omicidio di Michele Navarra, il medico e padrino di Corleone suo mentore e nemico, poi trasformata in una condanna definitiva dalla Cassazione, e quella al Maxi processo, rimasta tale perché il “maestro” di Totò Riina nel frattempo morì. Tutti esempi che magari convinceranno la Capacchione ad aggiustare il tiro: la sua giustificazione sul salvataggio di Minzolini non regge. E meno male.
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