È ormai noto da secoli che incultura, selezioni inadeguate, interesse corporativo, garantiscono vita lunghissima al malcostume furbesco, sicché, là dove mancano protocolli in qualche modo verificabili, chiunque voglia sentenzia “pro amico”. Sono lì a testimoniacelo Michel Eyquem sieur de Montaigne e Gottfried Wilhelm Leibniz. Quando, tuttavia, i testi parlano chiaro, commentatori dal talento acrobatico provvederanno a innescare un vortice combinatorio di fronte al quale girerà la testa anche ai pochi che abbiano imparato tutto o quasi.
Quella del parlare a vanvera è patologia piuttosto diffusa, spesso scambiata per talento. Questa patologia affligge onniscienti “opinionisti” da Talk Show e colpisce sempre più spesso sedicenti “esperti” se non addirittura venerati “maestri”. Esemplare il dibattito sviluppatosi sugli esiti del voto, in Senato, sulla decadenza ex lege Severino del Senatore Minzolini. Un dibattito che ha del surreale: campioni garruli si esercitano in discorsi pesantemente imbarocchiti, farneticano, “docendo et disputando”, salmodiano “consiliorum multa millia”, discutendo questioni inesistenti; i meno sgangherati vivono su minuscoli imparaticci ignari del resto; difficile, se non addirittura impossibile, trovarne qualcuno intellettualmente onesto. Fanno un baffo, insomma, ai doctissimi iurisconsulti mai incontrati, durante il suo voyage en Italie del 1567, da Jacques Cujas, sebbene di loro si dicesse fecundam esse Italiam.
Il caso Minzolini è di una semplicità sconcertante. I testi non si prestano a equivoci: a norma dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 235 del 2012, “Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore […] coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale…”, ed è questo il caso del Senatore Minzolini, condannato, con sentenza definitiva, alla pena della reclusione in anni due e mesi sei, per peculato continuato; a norma del successivo art. 3, “qualora una causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione”: ancora una volta è il caso del Senatore Minzolini, la cui condanna è divenuta definitiva “nel corso del mandato elettivo”, cioè nel 2015; l’art. 66 della Costituzione dispone, infine, che “ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”: ciò significa che, nel caso di Augusto Minzolini, il Senato era chiamato a verificare se lo stesso avesse riportato, per come ha effettivamente riportato, la condanna implicante l’incandidabilità, ma esorbitando dai propri poteri è entrato nel merito della vicenda giudiziaria, e ha “salvato” l’ormai incandidabile, che doveva lasciare Palazzo Madama in base alla legge Severino.
Dottori cavillanti denunciano immediatamente leggi asseritamente “assurde” che regolerebbero lo scontro tra politica e giustizia, senza che alcuno se ne occupi seriamente. Imbrogliano le carte, postulando che la verifica di sussistenza della causa d’incandidabilità da parte della Camera di appartenenza, ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, implichi, contro la lettera e lo spirito della disposizione costituzionale, una rivalutazione nel merito della condanna da cui l’incandidabilità deriva, poiché, in caso contrario, la verifica si ridurrebbe a un mero “passaggio di carte”.
E consumato l’espediente fraudolento, simulano stupore: perché mai, si domandano, se deputati e senatori esercitano il loro diritto di entrare nel merito e di sostituirsi ai magistrati, per quale diamine di motivo è stata approvata una legge sulla decadenza che poi non viene onorata? Così, mentre si dolgono di come il meccanismo elaborato dalla legge Severino sembri studiato apposta da qualche mente malata per aggiungere discredito sulle nostre povere istituzioni, neppure li sfiora il dubbio che non già in quel meccanismo, ma nelle arbitrariamente errate premesse dei loro paralogismi, si annida quel che offende la logica.