Società

Perché, nonostante tutto, preferiamo ancora restare in Italia

Infinite volte mi è capitato di restare interdetto di fronte alle argomentazioni di amici stranieri o amici di stranieri, che – senza fatica – riuscivano a elencare i motivi per cui non valga più la pena vivere in Italia. Non è facile opporsi a chi ritiene l’Italia un paese senza futuro. Siamo indubbiamente uno Stato mal governato da una classe dirigente inetta e perfino un po’ ladra, sostenuta da una popolazione che vorrebbe nei suoi capi quelle virtù che essa stessa non ha. Eppure di fronte a tutto questo scempio, a tanta irrazionalità e incapacità applicate alla convivenza civile, c’è sempre qualcosa che ci trattiene dalla fuga, qualcosa che ci fa preferire e amare l’Italia più di ogni altro posto al mondo, la casa che mai vorremmo lasciare, quella Patria che, in una sorta di schizofrenia delittuosa, con una mano continuiamo a distruggere con l’altra amiamo con forza.

Cos’è che ci impedisce in realtà di considerare l’Italia un Paese come gli altri, un luogo che debba cedere alla logica banale, alla razionalità apparente delle leggi economiche, dello sviluppo e della ricchezza? Perché l’Italia, nonostante tutto, resterà sempre il posto più ricco e più bello del mondo, l’unico nel quale valga veramente la pena di vivere, l’unico che permetta agli uomini di realizzare in massimo grado le proprie possibilità individuali?

Un cittadino medio australiano, alla sua nascita, ha certamente aspettative di gran lunga migliori alle nostre: un reddito medio pro capite più alto, istituzioni più efficienti, un’economia più florida, una politica meno corrotta, persino un sistema educativo migliore. Questo vale per molte altre nazioni. Ma questo non significa automaticamente, a ben vedere, che le possibilità complessive di un australiano siano maggiori rispetto alle nostre, anzi sono decisamente inferiori. Sul piano delle disponibilità materiali molti altri ci sono superiori, in gran parte per colpe nostre. Ma tutti ormai sanno che la ricchezza solo convenzionalmente si misura con parametri materiali.

In effetti in Italia c’è dell’altro, molto altro, che trascuriamo. Sulla schiena e sulla vita di ogni singolo cittadino italiano grava un peso, una tradizione, una responsabilità, una fortuna, che è di gran lunga di maggior valore rispetto alla ricchezza materiale che molti altri possiedono oggi in misura superiore a noi.

La ricchezza è qualcosa che si crea e si distrugge. Non così facilmente la cultura. L’Italia nel XIII secolo, o nel XV secolo era un paese straordinariamente ricco, più ricco rispetto alla media degli altri paesi. Quando Venezia contava circa 150mila abitanti Londra, ad esempio, faticava ad averne 20mila. Già in epoca romana mentre i nostri antenati creavano uno Stato, un corpus di leggi e opere pubbliche di inestimabile valore, molti altri luoghi del mondo oggi ricchi, conducevano un’esistenza prossima a quella dei Flintstones. Tutto questo pesa.

Sulle spalle di ogni italiano, cosciente o incosciente, incombe e grava il senso dello Stato di Cicerone, gli insegnamenti morali di Seneca, la tecnica di Vitruvio, il vigore e la fede di Sant’Agostino, l’umanità di Michelangelo, l’acume di Machiavelli, la saggezza di Beccaria e le opere di migliaia di altre persone, che già videro i nostri stessi problemi e offrirono soluzioni e proposte dal valore immutabile, ancor oggi. Questa ricchezza lascia delle tracce, cambia il mondo e soprattutto cambia le persone, come dice Burt Lancaster a Paolo Stoppa in una memorabile scena del Gattopardo: «Bisogna distruggere almeno tre patrimoni per avere un giovane come Tancredi». In un processo di creazione distruttiva, le tracce della ricchezza storica degli italiani permangono, e sarà dura cancellarle per chiunque (anche da un’altra Gelmini). «Pecunia pecuniam non parit», cioè il denaro non si crea solo con il denaro, ma ha bisogno di altro, di intelligenza, conoscenze, capacità, cultura e molto altro. Oggi il denaro c’è, domani non si sa, noi (e i Greci) lo sappiamo bene. Al contrario la cultura, le conoscenze sono l’unico mezzo in grado di garantire la continuità nei processi di sviluppo, la persistenza nella capacità di produrre, ancorché ciclicamente, la ricchezza.

Se noi decideremo, autonomamente, di rinunciare a quella che è la nostra ricchezza, il destino sarà segnato. Se saremo noi stessi a mettere da parte il valore del nostro immenso patrimonio culturale, saremo certamente sconfitti. Solo da una valorizzazione, dallo studio, dalla conoscenza della nostra immensa e inarrivabile eredità culturale proviene la possibilità di recuperare gli strumenti per creare nuovamente quel benessere e quella ricchezza, in cui siamo stati maestri. L’accettazione supina e ignorante di un mondo in cui non vi sia nessuno spazio per i valori della cultura, dell’incivilimento, ma tutto si decida all’interno del contesto esclusivamente materiale dello status quo, è l’unica strada che può rendere l’Italia un paese come gli altri, gli italiani un popolo dei tanti, e quindi fondamentalmente e definitivamente poveri.