La via verso un ipotetico ritorno a una moneta nazionale è disseminata di infiniti trabocchetti. Tra i più nascosti ci sono anche le cosiddette “Cac”. Dal 2013 le “Clausole di Azione Collettiva” sono sistematicamente inserite nei prospetti dei titoli di Stato di durata superiore a un anno. Prevedono la necessità di ottenere l’ok da una maggioranza qualificata dei possessori di un determinato bond (in genere il 75% del valore complessivo del titolo) per effettuare modifiche delle condizioni contrattuali. Tra queste, naturalmente, anche la moneta con cui si pagano gli interessi e si rimborsa il titolo. Se la maggioranza viene raggiunta la decisione diviene vincolante per tutti i possessori dello stesso titolo. In realtà l’intento originario è quello di rendere eventuali operazioni di ristrutturazione del debito più semplici ed ordinate. Una clausola che gioca soprattutto a favore dell’emittente.
Si pensi al caso recente più noto, quello dell’Argentina. Dopo il default del 2001 Buenos Aires ha scambiato i titoli originari con nuovi bond con scadenze più lunghe e rendimenti meno vantaggiosi. Nel corso degli anni oltre il 90% dei risparmiatori ha aderito a queste offerte. Se i titoli argentini fossero stati tutti provvisti di Cac la partita si sarebbe quindi chiusa senza ulteriori strascichi. Invece gli obbligazionisti più agguerriti, tra cui una pattuglia di fondi speculativi, hanno trascinato l’Argentina in tribunale chiedendo il rimborso integrale dei titoli originari . Una vicenda giudiziaria che si è conclusa solo nel 2016, 15 anni dopo il default, quando il nuovo presidente Mauricio Macri ha accettato di sborsare quasi 5 miliardi di dollari per chiudere tutti i contenziosi.
La volontà di scongiurare il ripetersi di trattative caotiche e interminabili come nel caso argentino rinforzò quindi la spinta all’adozione delle Cac a livello internazionale. Nel 2002 un gruppo di lavoro del G10 raccomandò l’inserimento delle clausole nei titoli di Stato di nuova emissione. Un anno più tardi i rappresentanti degli Stati Ue ne concordarono l’introduzione nei paesi dell’Unione. Per il debutto delle clausole bisognerà però attendere altri 10 anni. E’ infatti solo dal 2013 che le Cac vengono regolarmente inserite nei prospetti dei titoli di Stato dell’area euro. Ad oggi i titoli in euro muniti di clausole sono circa la metà di quelli in circolazione che ammontano nel complesso a 7mila miliardi di euro.
Negli ultimi tempi l’avvicinarsi di scadenze elettorali come le presidenziali francesi e l’avanzata nei sondaggi di movimenti politici anti euro hanno riacceso i riflettori su questi “cavilli” regolamentari. Il ragionamento degli investitori è che nel caso uno Stato decidesse di cambiare moneta i bond muniti di Cac sarebbero più sicuri poiché il passaggio da una valuta all’altra relativamente a rimborsi e cedole dovrebbe essere approvato almeno dal 75% dei detentori del titolo. Senza l’ok di questa maggioranza un Paese con nuova moneta dovrebbe comunque continuare a pagare i suoi creditori in euro. In questa ipotesi quindi l’effetto della clausola in qualche modo si ribalta. Non più uno strumento che aiuta uno Stato a gestire una ristrutturazione ma un bastone tra le ruote per un Paese che volesse ristabilire la sua sovranità monetaria e sganciarsi da una valuta comune. Un aspetto che forse avrebbe potuto essere valutato con più attenzione quando fu decisa l’introduzione automatica delle clausole.
Qualche settimana fa un report di Mediobanca ha riacceso il dibattito sulla questione. Lo studio enfatizza il peso delle clausole nella valutazione costi/benefici di un addio alla moneta unica. Un conto piuttosto approssimativo poiché concentrato solo sul tema del debito, tralasciando gli altri aspetti problematici legati all’uscita dall’euro. Secondo il report, nell’ottica esclusiva del suo debito l’Italia sarebbe a un punto di svolta. Se decide in fretta di abbandonare la moneta unica i benefici potrebbero superare i costi. Più passa il tempo più, proprio per effetto delle clausole di azione collettiva, il conto dell’addio all’euro diventa salato. Attualmente, spiegano gli analisti di piazzetta Cuccia, ci sono in circolazione titoli italiani senza Cac per 932 miliardi di euro. Quelli muniti di clausole valgono invece 902 miliardi, la quantità più alta d’Europa. A questi si aggiungono bond per 48 miliardi emessi sotto una legislazione straniera (es quella dello stato di New York). Poiché tutte le nuove emissioni sono provviste di Cac, più passa il tempo più la loro quota sul totale aumenta.
Come rileva l’avvocato Luca Dezzani dello Studio Grimaldi, specializzato in contenziosi relativi a titoli finanziari, se davvero l’Italia decidesse di abbandonare l’euro i titoli più problematici sarebbero però quelli emessi sotto legislazione estera su cui, comprensibilmente, il nostro Paese non avrebbe nessuna possibilità di intervento. In questi casi sarebbe quindi indispensabile un preventivo accordo con i creditori. La difesa offerta dalle Cac non sembra invece granitica. “In teoria”, ragiona Dezzani, “questi titoli non potrebbero essere ridenominati in lire senza un accordo, molto improbabile, con la maggioranza qualificata dei creditori. Tuttavia, continua Dezzani, “sotto il profilo legale, potrebbe essere sostenibile anche la tesi più favorevole all’Italia, in quanto si tratta di obbligazioni rette dalla legge italiana. Di conseguenza, lo Stato potrebbe comunque imporre con legge nazionale la ridenominazione anche dei titoli di Stato con le Cac”.
Quello che sembra certo è invece che i tribunali verrebbero inondati di ricorsi dai possessori di bond dotati di clausole. Anche perché, come si usa dire, il diavolo è nei dettagli. L’approvazione da parte del 75% dei creditori attiene a ogni singolo titolo. Potrebbe quindi essere raggiunta relativamente a uno specifico Btp e non in un altro. A questo si aggiungerebbe l’effetto “stigma” sui mercati. Almeno per qualche tempo uno stato che “maltratta” i suoi creditori avrebbe forti difficoltà a presentarsi di nuovo sui mercati. L’unico modo per convincere gli investitori a tornare a scommettere sul paese sarebbe quello di offrire dei super rendimenti con il conseguente aggravio di spesa pubblica.