Il ritorno alla triste stagione dei campi rom è dietro l’angolo e diverse amministrazioni – le stesse che in campagna elettorale sulla questione avevano promesso una discontinuità con il passato – stanno cedendo alla tentazione di continuare a investire sui ghetti etnici.
Secondo una mappatura che prossimamente verrà resa pubblica da Associazione 21 luglio, sono 149 in Italia, gli insediamenti per soli rom progettati, realizzati e gestiti dalle amministrazioni locali. Espressione architettonica di una politica fondata sulla discriminazione e sul disprezzo, rappresentano, per numero e diffusione, la stortura di un Paese definito, a partire dal 2000, “Campland”, il Paese dei campi. Sono dappertutto, da Nord a Sud e al loro interno sono concentrati cittadini italiani e stranieri, extracomunitari e rumeni, tutti accomunati dalla stessa origine rom.
L’Europa dei diritti umani li ha chiamati “spazi di segregazione istituzionale”; noi preferiamo forme più colorite e bizzarre: “villaggi attrezzati”, “campi sosta”, “villaggi della solidarietà”, “aree sosta”, “campeggi”. Termini bucolici che addolciscono immagini di vite alienate di generazioni che hanno visto le loro esistenze consumarsi dentro non-luoghi. Buchi neri senza fondo che per anni hanno incanalano risorse pubbliche fuori controllo, frequentati da quanti hanno barattato illeciti guadagni con la violazione dei diritti umani.
La loro massima diffusione è avvenuta nel periodo della cosiddetta “Emergenza nomadi” quando, nel 2008, il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni paragonò la presenza di 12.000 rom in 5 regioni italiane a una catastrofe naturale e 100 milioni furono destinati a costruire nuovi ghetti dove concentrare esseri umani in nome della sicurezza nazionale. Quel triennium horribile finì sotto la scure della Consiglio di Stato che ne decretò l’illegittimità. L’Italia doveva uscire da quella vergogna e nel 2012, presentando la Strategia nazionale per l’inclusione dei Rom, si impegnò davanti all’Europa a raggiungere entro il 2020 il definitivo “superamento dei mega insediamenti monoetnici”. Ma da quel giorno si è assistito, in 22 Comuni italiani, alla costruzione di nuovi campi per una spesa complessiva di quasi 32 milioni di euro: circa 30.000 euro per ogni famiglia interessata. Invano l’Onu anche lo scorso anno, ha esplicitamente richiamato l’Italia, intimando la “cessazione di qualsiasi piano volto a predisporre nuovi campi segregati che separino i rom dal resto della società”.
La Capitale, con i suoi sette “villaggi” e undici “campi tollerati” detiene il triste primato di città con il più alto numero di insediamenti. Nessuna giunta si è sottratta a mantenere in vita il perverso sistema. E’ dei giorni scorsi la notizia che l’amministrazione pentastellata realizzerà un nuovo insediamento per soli rom nel XV Municipio: un milione e mezzo di euro di soldi pubblici per discriminare. Perché questo sono i “villaggi romani”: luoghi di discriminazione istituzionale. Non lo dichiarano le associazioni per i diritti umani ma lo ha sentenziato un giudice del Tribunale Civile nel 2015. Anche il Comune di Napoli non è da meno e tra poche settimane inaugurerà l’insediamento in via del Riposo realizzato con una spesa superiore al mezzo milione di euro.
Nell’ultimo mese ho incontrato gli assessori alle politiche sociali delle due metropoli. “Non si tratta di nuovi campi – hanno tenuto a precisare all’unisono – perché la loro apertura comporterà la chiusura di altri. E poi, si tratta di campi provvisori fatti per evitare di buttare famiglie per strada”. Considerazione banale e ingenua perché dimentica del fatto che è sempre stato così: è la storia di un nomadismo forzato da un campo all’altro. Prima lo si faceva in nome della sicurezza, oggi si ha l’ipocrisia di invocare i diritti delle persone. E’ in fondo questa la discontinuità di amministrazioni governate da movimenti e liste civiche dalle quali ci si aspettava ben altro. Non è un caso che altre città, come Torino e Cagliari, anch’esse governate da forze politiche di rottura rispetto al passato, stiano seriamente prendendo in esame l’opzione di ripartire da nuovi campi per soli rom.
E’ questa l’altra faccia di un razzismo di Stato con cui dobbiamo abituarci a fare i conti. Non quello prevedibile che invoca sgomberi e promette ruspe, ma quello strisciante che costruisce gabbie per senso di bontà e solidarietà, che promette che sarà l’ultima volta perché i rom vanno inclusi ma gradualmente e senza fretta, perché “noi mica siamo come gli altri”. Di questo, purtroppo, ce ne siamo accorti.