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Trattati Roma, nulla da festeggiare. Il progetto europeo è in frantumi

A porre il sigillo sulla celebrazione del 60° anniversario dei Trattati di Roma ci ha pensato con qualche giorno di anticipo il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Affermando, in allusione ai Paesi del sud Europa, che non si può spendere in donne e alcol per poi chiedere aiuto a terzi, cioè ai Paesi del nord, l’olandese si è cacciato in un mare di polemiche proprio in corrispondenza di una data simbolica che diversi leader europei, oggi riuniti nella capitale italiana, stanno cercando di cavalcare al fine di rilanciare il progetto dell’Unione. Tuttavia, l’insistenza con cui la metafora della cicala e della formica si riaffaccia nel dibattito continentale, anche senza il guizzo della battuta fuori luogo, è lo specchio di un progetto ormai andato in frantumi.

In realtà infatti, c’è ben poco da festeggiare questo 25 marzo. In un discorso pronunciato al Congresso dei Deputati spagnolo appena dieci giorni fa, il leader di Podemos Pablo Iglesias ha avanzato una disamina impietosa ma decisamente realistica dello stato dell’Ue. Ha poi invitato il premier Rajoy a riflettere in maniera autocritica sulla sfilza di insuccessi collezionati dall’Unione – dalla bocciatura plurima della Costituzione Europea alla Brexit -, ha parlato apertamente della contrapposizione tra interessi spagnoli e interessi tedeschi, non lesinando parole di critica per i meccanismi economici che rendono il modello europeo per certi aspetti peggiore persino di quello statunitense. Infine, ha invocato una parola da molti considerata come un tabù. Sovranità.

Ma partiamo da quello che non va. Forze euroscettiche guadagnano consensi in diversi paesi, al punto da determinare l’uscita di uno dei soci di maggior rilevanza. Le politiche economiche dettate da tecnocrati imbevuti di ortodossia liberista non fanno altro che prolungare una crisi pagata a caro prezzo dai ceti medi e bassi: mentre agli Stati e ai cittadini vengono imposte durissime misure di austerità con la scusa che “i soldi non ci sono”, la Bce continua ad inondare di miliardi – creati dal nulla – le banche del continente. L’austerità si applica quindi integralmente alla gente comune, quelli più in basso, mentre in alto c’è chi continua a far festa. In questo contesto, un paese, la Grecia, è stato ridotto in povertà a puro scopo dimostrativo, creando le condizioni affinché la sua economia non possa risollevarsi nemmeno nel medio termine. Sul fronte delle relazioni internazionali, l’Europa si impegna pervicacemente a inimicarsi la Russia e rendere più insicuro il continente, rafforzando contestualmente il dominio di un presidente autoritario, mentre in Siria l’impotenza dell’Unione è sotto gli occhi di tutti. Sul tema dei migranti, è bene stendere un velo pietoso. Forse solo i libri di storia renderanno giustizia al malcelato disinteresse nei confronti della vita umana di una classe politica prodiga di parole vuote e avara di gesti concreti.

Tornando alle questioni interne, le istituzioni europee hanno dimostrato di essere particolarmente permeabili alla “cattura oligarchica”. In particolare, a una distanza siderale tra i politici e la gente comune corrisponde una vicinanza, per non parlare di una vera e propria commistione, tra élite politiche ed economiche. Questo è anche vero per i singoli paesi, ma la scarsa democraticità del processo decisionale e la generale opacità che contraddistingue tutto l’impianto istituzionale europeo – per non parlare della naturale distanza geografica e culturale dei popoli europei da Bruxelles e i suoi dibattiti – acuiscono esponenzialmente il problema. In parallelo, l’Unione Europea è stata piegata alle esigenze dell’economia tedesca, la quale ha progressivamente imposto un dualismo nord/sud (le famose due velocità), per cui ad un centro a trazione finanziaria e di export ad alta tecnologia fanno da contraltare economie periferiche in via di deindustrializzazione e con salari stagnanti. La questione della moneta e il trattato di Maastrich che ne è stato il necessario preludio, lungi dall’essere temi puramente tecnici, hanno svolto un ruolo centrale in questo processo.

Porre la questione in termini di democratizzazione dell’Unione Europea è fuorviante. Si tratta di un’entità sovranazionale resa impermeabile al cambio dalla propria ingegneria istituzionale. E allora? Proporre l’uscita dall’Unione Europea e dall’Euro di punto in bianco, oltre a non catturare del tutto gli umori attuali del Paese, potrebbe avere dei contraccolpi di non poco conto. Piuttosto, è necessario intraprendere un percorso di rivendicazione di maggior sovranità, proprio come prospetta Iglesias. Sovranità? Ma non era una brutta parola? Parlare la sovranità non significa adottare una concezione nazionalista. La sovranità popolare non è altro che la possibilità per i più deboli di avere parola nelle decisioni che riguardano il proprio territorio e la propria vita, al momento sottratte da istituzioni e potentati economici su cui non esercitiamo alcun controllo. Avviare un processo di disobbedienza selettiva all’Unione Europea, dimostrando il conflitto tra gli interessi popolari e quelli delle élite continentali e nostrane, può essere la forma per procedere non astrattamente, ma a partire dalle domande concrete di maggior giustizia.