Roma. È il 21 marzo 2017 e la Guardia di Finanza esegue una serie di arresti. Nell’ordine, un imprenditore, un commercialista, arresti domiciliari per la collaboratrice del commercialista. I tre, insieme a una quarta persona, sono indagati per bancarotta fraudolenta aggravata per aver distratto ingenti somme di denaro dal patrimonio della Edom S.p.a., società titolare dei negozi a marchio Trony di Roma. Il termine “distratto”, è un termine appropriato che viene utilizzato in questi casi, e che ritrovo anche sul sito del Guardia di Finanza, ma diciamo che un comune mortale direbbe “sottratto”. Siamo nell’ordine dei 100 milioni di euro per quanto riguarda l’evasione fiscale, e dei 9,5 milioni di euro a danno della società, e quindi dei lavoratori, di cui circa 7 milioni in 4 anni direttamente prelevati dai conti societari. Conseguenza: dal 16 febbraio i negozi chiudono su tutta Roma dopo la dichiarazione di fallimento del Tribunale, 8 punti vendita, 8 punti vendita di cui 3 centri commerciali e 5 negozi su strada.
E veniamo quindi al punto che mi interessa approfondire, ché sul caso di cronaca giudiziaria è già stato scritto. Circa 180 persone, da un giorno all’altro, si ritrovano senza stipendio da un mese e mezzo (e fino a quando non verrà definita la loro situazione), espropriati del loro lavoro, che nella pratica significa “affitto”, “mutuo”, “cibo”, “bollette”. Senza voler andare a considerare questioni legate alla progettualità personale, alla realizzazione di sé, alle ambizioni, ai sogni e alle speranze che ognuno di noi, esseri umani e non automi, dovremmo avere.
Lasciamo perdere queste “inezie”, va bene? Andiamo al sodo. Stefano Chiaraluce di Filcams Cgil Roma Lazio, che attualmente rappresenta la quasi totalità degli iscritti al sindacato su Trony e che si sta occupando della questione, mi spiega che i lavoratori sono a oggi in regime di sospensione dall’attività lavorativa e che la procedura di mobilità che si è aperta porta a due possibilità. La prima, quella sulla quale si sta lavorando e che si auspica fortemente, punta al rilevamento della società da parte di un terzo soggetto. “Stiamo discutendo con la Curatela fallimentare, nella speranza di evitare i licenziamenti – mi spiega il funzionario – Abbiamo interessato anche l’assessore al Lavoro della regione Lazio, Lucia Valente, e in questo senso, la Regione ci ha detto che, se le manifestazioni di interesse verso la società si definissero nel giro di 9/12 mesi, sarebbe disponibile a favorire il riconoscimento di una Cassa Integrazione Straordinaria per i dipendenti. Nel caso – prosegue – avverrà una cessione di ramo con tutto ciò che ne consegue, ma in questo modo sarebbe garantita l’occupazione”.
Uno dei lavoratori Trony, invece, mi spiega che secondo la Curatela, nonostante ci siano tre soggetti interessati, non c’è nulla di concreto in questo senso. “Questa versione non ci convince” – sottolinea il lavoratore – “Il 2 di marzo la Curatela ha aperto una procedura di licenziamento collettivo adducendo come motivazione il fatto che non ci siano alternative per garantire l’occupazione. Quattro giorni dopo, la stessa Curatela pubblica sui principali quotidiani la richiesta a manifestare interesse per l’acquisto dell’azienda, in contraddizione a mio avviso col fatto che non ci fossero prospettive”.
I lavoratori ci sperano in questo rilevamento, e in questo senso va l’impegno sindacale, perché se entrasse in campo la seconda possibilità, che è quella di vedersi tutti licenziati, con conseguente attivazione della Naspi, per loro significherebbe due anni di stipendio che parte al 70% e va a scendere via via che passano i mesi, e poi “THE END”. Siamo alle solite, in fondo. Perché tutti quei soldi sottratti, portati all’estero secondo l’accusa, mangiati, ed evasi, che fine fanno? “Se tornano, tornano tra dieci anni!”, esclama il lavoratore, che non vive certo nel mondo delle giuggiole, e prosegue con un’ironia tagliente che trovo centrata. “E poi in questi casi, c’è l’asso pigliatutto, che è l’Agenzia delle Entrate”.
Insomma, se ci saranno delle risorse, le persone vengono dopo lo Stato.
“Al netto di alcuni cambiamenti dovuti al Jobs Act, della legge fallimentare e della cassa integrazione – aggiunge in chiusura – noi lavoratori siamo dei “cespiti”, al pari di una sedia che sta dentro il negozio”. Merce. Costo da sanare. Svuotati dell’elemento caratterizzante che dovrebbe stare alla base della persona. La sua umanità. Eppure abbiamo una Costituzione che potrebbe ristabilire un equilibrio dentro tali conclusioni, se solo venisse considerata.