Il bullismo consiste in una serie di comportamenti aggressivi, fisici e psicologici, nei confronti di soggetti che non sono in grado di difendersi. Si basa su tre presupposti:
-intenzionalità;
-persistenza nel tempo;
-asimmetria nella relazione.
Per contrastare il bullismo, bisogna contrastare la prima delle sue caratteristiche: l’intenzionalità. Le altre due decadranno di conseguenza. Il “volere fare male” lo si elimina con un lavoro attraverso il quale i ragazzi possano riconoscere e riconoscersi i propri stati emotivi, senza sentirsene minacciati.
Quando Hannah Arendt parlava della “banalità del male” capiva che l’intenzionalità di ferire, in realtà, è, tante volte, più un presupposto della vittima che dell’aggressore, il quale confrontato con gli effetti di quanto provoca, ha sicuramente maggiori possibilità di modificare il suo comportamento.
Il bullo, nell’immaginario comune, non necessariamente viene a coincidere con una figura completamente negativa. Anzi, rappresentando l’ostentazione di un maschile che non deve chiedere, ma prevaricare, solo per il fatto di poterselo permettere, è spesso uno status ambito dai ragazzi che ne vedono una certificazione di forza, senza che nasca un’attenzione alle conseguenze dell’aggressività agita e quindi senza che maturi la capacità di vedere realmente gli effetti, a breve e lungo termine, di certi comportamenti sulle persone oggetto di soprusi.
Lo stesso vale per la “bulla”, il fenomeno è anche femminile certamente, anche se mi concentro maggiormente sulle dinamiche maschili.
Il bullismo non è un fenomeno causato dalla presenza dei ragazzi, ma dall’assenza degli adulti. Un’assenza che non è fisica e formale, ma educativa e sostanziale. Da adulti poi, si trovano solo nuovi modi per denominarlo, non scompare, ma gli adulti hanno un rapporto ormai conflittuale con il cambiamento. Agire prima del disagio, non quando il disagio è conclamato, lo sanno i molti, ma lo fanno i pochi.
Se non interveniamo sui ragazzi nelle scuole, forse meglio dire con i ragazzi (insieme), potrebbero avere lo stesso nostro destino, sempre in lotta per poter esprimere la legittimità di un mondo emotivo che sembra essere sbagliato, solo per il fatto di esporci e renderci vulnerabili, ma che nascosto porta vuoto e violenza.
Tutti abbiamo prevaricato e/o siamo stati prevaricati, in contesti dove ci sarebbe dovuta essere una tutela maggiore e credo che, sia quando siamo stati bulli, sia quando siamo stati vittime, spesso non eravamo dotati di strumenti in grado di relazionarci in modo sano a quanto stavamo provando e di farci capire come questo abbia potuto influenzare le nostre relazioni successive e abbia potuto contribuire a farci diventare “grandi”.
Il bullismo non è un destino, ma una scelta e solo riportando i ragazzi alla dimensione della responsabilità delle loro azioni è possibile un cambio di rotta.
Negli ultimi anni ho fatto vari interventi nelle scuole, chiamato a parlare dei miei argomenti: violenza e stereotipi di genere. La via maestra, per stare con i ragazzi, dentro quelle tematiche, è stato parlare di emozioni, rabbia e paura, ma non solo. Mi confronto con studenti svegli, in grado di tenere banco per ore, se stimolati adeguatamente, mi trovo spesso a chiedermi cosa si vada perdendo da adulti, quando precisamente il cambiamento è tale da non permettere più altro cambiamento.
Non mi piace parlare di educazione all’affettività: le emozioni non si insegnano, si provano. Si può facilitare la loro gestione, quello che si può insegnare è come esprimere certi sentimenti, anche quando sono scomodi o mettono a rischio. Educare all’espressione dell’affettività, questo è possibile e necessario.
Non si può controllare quello che avviene fuori dalla famiglia e dalla scuola e va bene, il mondo non è ovattato, esente da pericoli, ma se solo i ragazzi apprendessero quando, come e dove chiedere un aiuto, se necessario, sarebbe un risultato importante.
Vignetta di Pietro Vanessi