Le 20 principali banche europee dichiarano che un quarto dei loro profitti proviene dalle loro società controllate con sede nei paradisi fiscali: oltre 25 miliardi di euro nel 2015. Eppure nelle sedi offshore le banche producono solo il 12% del fatturato e hanno il 7% dei dipendenti. Qualcosa non torna e il motivo è semplice: i profitti nei paradisi fiscali subiscono una tassazione molto minore che nel proprio Paese. Nulla di illegale: a rimetterci, però, sono le casse dei Paesi dove effettivamente le banche svolgono la maggior parte delle loro attività. Lo scrivono le organizzazioni internazionali Oxfam e Fair Finance Guide International nel rapporto “Aprite i caveau”. Per la prima volta, le ong hanno messo in fila i dati delle banche europee ai quali è possibile avere accesso grazie alla Direttiva del 2013 sui requisiti patrimoniali del sistema bancario. Nella lista delle banche nel mirino ci sono due banche italiane (Intesa San Paolo e Unicredit), sei francesi (Bnp, Société Générale, Bpce, Credit Agricole, Credit Mutuel, Cc), cinque britanniche (Hsbc, Barclays, Rbs, Lloyds, Standard Chartered), tre tedesche (Kfw, Deutsche Bank, Commerzbank), due olandesi (Ing e Rabobank), due spagnole (Santander e Bbva) e una svedese (Nordea).
I paradisi fiscali più gettonati sono Lussemburgo, Irlanda e Hong Kong, che insieme totalizzano il 72% dei profitti offshore. Nel Granducato i profitti per il 2015, 4,9 miliardi di euro, messi insieme sono più di quanto le banche hanno guadagnato in Gran Bretagna, Svezia e Germania insieme: altro dato quanto meno anomalo. Intesa San Paolo, si legge nel rapporto, è particolarmente attiva in Irlanda, dove registra 436 milioni di profitti. Oltre il 10% del totale. Un dipendente medio, a Dublino, produce per la banca italiana 3,3 milioni di utili. Un risultato raggiunto anche grazie al regime fiscale che ha aliquote medie del 6%, secondo il rapporto, e che in alcuni casi può scendere anche al 2%. La produttività media di ciascun dipendente delle banche nei paradisi fiscali è quattro volte superiore alla media globale: 171 mila euro di utili l’anno per ognuno di loro, contro i 45 mila di un impiegato medio in Paesi con una tassazione normale.
Sempre in Irlanda, cinque istituti bancari, tra cui Unicredit (insieme a Rbs, Santander, Société Général e Bbva) registrano un profitto maggiore del fatturato, il che, si legge nel rapporto, “suggerisce che abbiano artificialmente spostato i propri profitti”. Unicredit è nel novero delle sette banche che nel 2015 ha registrato perdite in patria (- 675 milioni di euro), ma che offshore mantiene fatturati invidiabili. Il caso più clamoroso è quello di Deutsche Bank, che in tutti i principali mercati per il 2015 ha registrato profitti minimi o addirittura conti in rosso, mentre offshore totalizza ricavi per 2 miliardi.
Destano curiosità anche i conti della francese Bnp Paribas alle Cayman. La banca non ha dipendenti nell’arcipelago, ma nel 2015 è riuscita comunque a portarsi a casa da lì 134 milioni di euro. Esentasse. In totale, le banche hanno incassato da paradisi fiscali dove non hanno dipendenti un totale di 628 milioni di euro. Per ogni 100 euro di attività, esemplifica il rapporto, nei paradisi fiscali se ne mettono in cassa – come utili – 42, contro i 19 della media globale. Tra i paradisi bancari è in declino la Svizzera, che, si legge nel rapporto “Aprite i caveau”, si sta muovendo verso una maggiore trasparenza. A quest’apertura, nel 2015, è corrisposta una caduta dei profitti (un esempio su tutti: Société Générale che ha visto i suoi asset in Svizzera diminuire del 26%). Ulteriore conferma che l’unica arma contro l’elusione fiscale sono maggiori regole di controllo.
Tra i motivi per i quali le banche spostano le proprie casse offshore non c’è solo la possibilità di ridurre le aliquote sui propri utili. Lo stesso discorso vale anche per quelli dei propri clienti che hanno qualcosa da nascondere al fisco di casa. Terza motivazione inserita nel rapporto è quella di stare in contesti in cui regolamenti e normative sulla trasparenza sono meno stringenti che nel resto del mondo. Non è un caso che cinque delle dieci banche più attive offshore siano già state toccate dallo scandalo dei Panama Papers, il caso che ha rilanciato la campagna contro i paradisi fiscali.