Oltre 400 persone sono state fermate tra sabato e domenica a Minsk per aver manifestato contro la tassa imposta (e poi sospesa) dal governo a chi lavora meno di 6 mesi l'anno. Tra loro anche Vladimir Neklyaev, poeta, scrittore e leader dell'opposizione candidato alle presidenziali nel 2010. Ma i raduni, molto rari nel Paese, riempiono le strade di diverse città dalla metà di febbraio. E il regime accusa le "agenzie di intelligence dei Paesi occidentali" di fomentare le proteste
“Mio padre è un poeta, si diede alla politica per ragioni poetiche”. Dall’altro capo del telefono, la voce di Eva è sottile. L’ultima volta che lo aveva arrestato, la polizia aveva fatto sparire e picchiato Vladimir Neklyaev per giorni. Allora era più giovane, era il 2010, l’anno in cui aveva corso alle presidenziali. Oggi Neklyaev ha 71 anni, ma non è ancora stanco. Venerdì la polizia lo ha tirato giù da un treno mentre era in viaggio verso Minsk e per due giorni né sua figlia né la sua famiglia hanno saputo nulla di lui. Andava nella capitale per partecipare alle proteste che da settimane riempiono le strade della Bielorussia contro l’ennesimo atto di protervia che Aleksandr Lukashenko ha calato sul suo popolo: la tassa sui parassiti.
Quattrocento gli arresti di sabato su un totale di 700 persone scese in strada, un’altra trentina quelle fermate domenica per aver cercato di radunarsi in una piazza centrale della capitale e aver chiesto notizie di parenti e amici finiti in carcere. “Ci sono due proteste in atto in questi giorni nel Paese – racconta a IlFattoQuotidiano.it Eva Neklyaeva, figlia di Vladimir, un presente in Italia come direttrice artistica del festival internazionale di Santarcangelo dei Teatri – la prima nasce in ambito politico e porta la firma dell’opposizione, che ogni anno il 25 marzo organizza manifestazioni per il nostro Freedom Day, l’anniversario del giorno in cui nel 1918 nacque la Repubblica popolare di Bielorussia. L’altra anima del dissenso è sgorgata spontanea dalla società civile contro la tassa sui disoccupati. In base a una legge approvata nel 2015, deve pagarla chiunque lavori meno di 6 mesi in un anno. All’inizio del 2017 il 10% della popolazione si è trovata a dover dare soldi allo Stato senza capire perché”.
Il governo li chiama “parassiti”: sono coloro che non sono formalmente occupati, né iscritti alle liste di disoccupazione. Sono l’obiettivo del decreto presidenziale sulla cosiddetta “prevenzione dalla dipendenza dal welfare“. Chi non paga la gabella rischia l’arresto amministrativo e, quando va bene, l’obbligo di prestare attività socialmente utili. Nel Paese il malcontento è palpabile. Il 17 febbraio a Minsk scendono in piazza 2mila persone in quella che viene considerata la più importante dimostrazione dell’opposizione degli ultimi 5 anni. Il 9 marzo Lukashenko sospende il provvedimento, ma il malumore celato a fatica tra le mura domestiche si consolida ancora in dissenso tra il 10 e il 12 marzo nelle strade di Babruisk, Kobryn, Brest, Luninets e Maladzechna.
“Lukashenko ha solo sospeso l’imposta e le ha tolto il suo carattere retroattivo – prosegue Eva – in un primo momento chi nel 2016 avesse lavorato meno di 183 giorni avrebbe dovuto pagare l’equivalente di 250 dollari in rubli bielorussi per compensare il mancato versamento dei contributi. Dopo le manifestazioni, cui ha preso parte gente che mai prima aveva partecipato alla vita politica, il presidente ha rinviato il pagamento al 2017. È l’unico compromesso che ha offerto alla sua gente. Ma ovviamente non è abbastanza”.
Dopo due anni di recessione, lo Stato ha bisogno di soldi. “L’economia, che non è stata mai davvero modernizzata, sta affrontando un periodo di depressione, perché storicamente la Bielorussia dipende dal supporto della Russia e quest’ultima a sua volta attraversa un periodo di forte crisi”. Gas e petrolio a prezzo calmierato non arrivano più come una volta e i bielorussi che sono andati a lavorare oltre il confine orientale faticano a mandare soldi a casa come facevano fino a pochi anni fa. Così, secondo gli ultimi dati diffusi dal governo, solo il 10% dei 470mila disoccupati e sottoccupati che avrebbero dovuto pagare lo hanno fatto. L’incasso ammonta all’equivalente di appena 6 milioni di dollari. Ma per ora il governo ha deciso di allentare la presa.
Il regime ha un incubo, e l’incubo ha un nome: si chiama piazza Maidan, luogo simbolo della rivolta che in Ucraina nel 2014 ha portato alla caduta del filorusso Viktor Yanukovic e al passaggio a di Kiev nella sfera d’influenza occidentale. Un incubo che con l’avvio delle prime proteste, a metà febbraio, ha consigliato a Lukashenko di cercare la strada del dialogo. “Non ci sarà una Maidan in Bielorussia – affermava il presidente il 9 marzo, giorno in cui sospendeva la tassa – ma è importante tenere il polso della situazione”. E anche se “alcune persone dicono di aver preso parte a raduni e di aver intenzione di farlo ancora, noi non possiamo proibire alla gente di scendere in strada”. Non a tutti, almeno.
Venerdì sera Vladimir Neklyaev era diretto a Minsk. Quel giorno sarebbe dovuto comparire in tribunale per rispondere dell’accusa di aver partecipato ai raduni dei mesi precedenti. Le forze di sicurezza lo hanno fermato prima: “A Brest la polizia lo ha fatto scendere dal treno sul quale tornava da Varsavia – racconta Eva – dove era andato a tenere una conferenza in Parlamento. Sembra lo abbiano tenuto in una stazione di polizia per una notte e un giorno, e nessuno ci ha detto dove fosse. Ad un certo punto di questa detenzione illegale ci hanno fatto sapere che sarebbe stato trasferito nella capitale. Sabato sera ha avuto un malore ed è stato portato in ospedale, dove è stato formalmente rilasciato. Ed è ancora lì”. Con lui viaggiava Mikalay Statkevic, altro leader dell’opposizione: “Da 3 giorni la famiglia non sa dove sia – raccontava Eva domenica – mio padre ha fatto un appello dall’ospedale per chiedere alle autorità di rivelare il luogo della sua detenzione”. Terminata solo lunedì pomeriggio.
Giornalista, poeta e scrittore, Neklyaev è tra i molti intellettuali che hanno conosciuto le patrie galere per motivi politici. “Papà cominciò a occuparsi di politica per ragioni poetiche – continua Eva, e all’altro capo del telefono arriva, attraverso vie invisibili, un sorriso – quando alla fine degli anni ’90 decise di affrontare il regime per protestare contro la russificazione imposta al Paese da Lukashenko. Nel 2010 è stato candidato alle presidenziali. La sua è una posizione interessante, perché non è un politico di professione e la sua candidatura era concepita per unire l’opposizione attorno a una figura indipendente. Dopo il voto del 19 dicembre fu incarcerato e picchiato, ma quando uscì di prigione continuò l’attività pubblica e a scrivere libri”.
Il giorno successivo, il 79% “ufficiale” delle urne consegnò il quarto mandato a Lukashenko, in una tornata elettorale che l’Osce definì “non libera“. Oggi che il presidente è al suo 5° incarico, “anche se la dittatura è considerata la normalità – premette Eva – c’è molta gente che non ha paura di andare in piazza anche se sa che verrà arrestata e picchiata. E questo è già un enorme cambiamento. Penso che la gente coltivi una speranza per quanto flebile, anche se la memoria collettiva conserva l’impronta della violenza con cui simili proteste sono state messe a tacere in passato”. Il futuro prossimo? “Sarà interessante capire in che modo la situazione in Russia influenzerà gli accadimenti in Bielorussia: nel fine settimana ci sono state manifestazioni di protesta a Mosca e ciò che avviene da quelle parti esercita una forte influenza su ciò che succede da noi”.
Ma i radar geopolitici del Palazzo della Repubblica di Minsk oltre che a est, sono puntati a sud e a ovest. Il 21 marzo Lukashenko ha accusato le “agenzie di intelligence dei Paesi occidentali” di fomentare le proteste e ha annunciato che decine di attivisti addestrati in Ucraina, Lituania e Polonia stati arrestati con l’accusa di aver pianificato “una provocazione armata“.