Qualche anno fa, il Censis restituì uno spaccato avvilente della società italiana: il lavoro si trova tramite le conoscenze. De te fabula narratur, verrebbe fatto di dire, dato che il figlio di Giuseppe De Rita fu al centro di non poche polemiche per essere stato assunto proprio dove lavora papà. A ogni modo, se quella fotografia non mentiva, certo andava ad aggiungersi a tutto un florilegio di dichiarazioni offensive dei politici su giovani e lavoro.
Dagli ormai leggendari bamboccioni di Padoa Schioppa ai choosy dell’ex ministra Elsa Fornero (anch’ella investita da una polemica sul lavoro della figlia, ricercatrice che aveva ottenuto un ricco finanziamento dalla fondazione bancaria Compagnia di Sanpaolo, che afferisce all’omonima banca, di cui l’augusta genitrice e moglie di Mario Deaglio era stata vicepresidente). Di recente si è aggiunto Domenico De Masi, sociologo di fama, il quale ha sostenuto che per combattere la disoccupazione occorre lavorare gratis.
Uscite infelici? Politici e personaggi pubblici che non sanno tenere la bocca chiusa? Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, ha detto ieri che per trovare lavoro è più importante giocare a calcetto che mandare in giro curriculum. Il re è nudo. Peccato che a dirlo sia il re. Il ministro del Lavoro (a sua volta investito dalle polemiche per il lavoro del figlio, direttore di un giornale che percepisce finanziamenti pubblici) sostiene una cosa che ahinoi tutti sappiamo, salvo che egli dovrebbe star lì per cercare di evitare che ciò accada. Se un ministro del Lavoro non si preoccupa della mobilità sociale in ascesa, se non propone politiche per favorirla e per abbattere il sistema che fonda il mercato del lavoro sull’economia di relazione, quale altro è il suo ruolo?
La domanda è retorica. Perché quello che negli anni si è accumulato in termini di umiliazione verso i giovani senza famiglie con case sulle rive gauche alle spalle o senza papini e mammine che possono alzare la cornetta e risolvere la disoccupazione (quanto meno quella dei propri figli) non è altro che la confessione, cinica e sfacciata, di una classe dirigente che produce, introietta e veicola i dispositivi del clientelismo e del familismo amorale che una certa letteratura ha voluto dipingere come tabe esclusiva del Sud dell’Italia.
Per fortuna che almeno arriva un Dijsselbloem a ricordarci che sei sempre il Sud di qualche Nord. Posto che comunque tutto il mondo è paese, ma qui è troppo paese, e se dovunque i figli delle classi dominanti godono dei benefici del potere dei genitori, l’Italia è il posto in cui i giovani sono, impunemente, cornuti e mazziati. L’idea che a subire le ingiustizie di un mondo in cui il lavoro diventa sempre più pervasivo, fluido, sottopagato, precario, sono coloro che non possono vantare conoscenze e partite di calcetto. E a dirglielo, con una buona dose di faccia tosta, sono proprio coloro che questo sistema lo hanno messo in piedi. Si stringono nelle spalle e, come novelli marchesi del Grillo, ti dicono bellamente “Perché io so’ io, e voi…”.
Più che il calcetto, poté il calcione.