Nell'interrogatorio di garanzia , Paolo Palmisani e Mario Castagnacci si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Il secondo, però, ha provato a scagionarsi: ""Io non c'entro". Nessuno gli ha creduto. Fissati per domani i funerali del 20enne di Tecchiena
“Io non c’entro niente”. Mario Castagnacci era in quella piazza, ma non ha preso parte al pestaggio di Emanuele Morganti. E, soprattutto, non ha sferrato il colpo mortale che gli è valso l’incriminazione per omicidio volontario. Il 27enne di Alatri accusato insieme al suo fratellastro 20enne Paolo Palmisani, ha provato a rispedire al mittente le accuse. Non ci è riuscito. Gli inquirenti hanno ritenuto non credibili le sue parole, specie dopo aver raccolto molte testimonianze che indicavano il cuoco con il vizio della droga (almeno tre i procedimenti a suo carico) come il vero protagonista del delitto, al pari di Palmisani. I due presunti assassini di Morganti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere durante il loro interrogatorio di garanzia, al termine del quale il gip del tribunale di Roma, Anna Maria Gavoni, ha convalidato il fermo di entrambi ed ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. L’interrogatorio si è svolto nel carcere romano di Regina Coeli, dove ieri Castagnacci è stato sentito per circa cinque ore dal procuratore capo di Frosinone Giuseppe De Falco.
Domani i funerali, oggi la camera ardente. Il fratello: “Giustizia, non vendetta”
I funerali di Emanuele Morganti si terranno domani alle 15 nella chiesa di Tecchiena, la frazione dove il ragazzo viveva. Oggi, invece, la camera ardente, allestita al policlinico di Tor Vergata a Roma, dove sono arrivate decine di persone tra parenti e amici del 20enne. “Chiediamo giustizia, non vendetta” ha detto Francesco Morganti, il fratello di Emanuele. Poi ha aggiunto: “Mio fratello era un angelo ed è inspiegabile come l’hanno ridotto. Solo Dio ci può dare una spiegazione“. “E’ una tragedia enorme, una storia inspiegabile. Vogliamo giustizia, è il minimo che possiamo chiedere” ha detto invece, con un filo di voce fuori della camera mortuaria, uno zio del ragazzo: “Non è vero che conosceva i due fermati – prosegue l’uomo – sono convinto che hanno preso il primo che capita“.
L’avvocato di due dei quattro buttafuori indagati: “Non è stato usato il manganello”
Sul fronte dell’inchiesta, invece, da registrare le parole di uno dei buttafuori della discoteca Mirò, al cui esterno è avvenuto il pestaggio. “Abbiamo avvertito che c’era un problema perché dei ragazzi hanno iniziato a spintonarsi. Non so il motivo, il mio compito è quello di tutelare l’interesse del locale. Siamo intervenuti per cercare di calmare gli animi ma non si sono calmati allora li abbiamo allontanati” ha detto l’uomo intervenendo a La vita in diretta.”Se sono uscito dal locale dopo l’allontanamento dal club delle persone coinvolte? Solo un attimo poi sono subito rientrato perché quello non era il mio compito” ha aggiunto il buttafuori.
“Il manganello che è stato ritrovato all’interno dell’auto di uno dei due buttafuori non è stato usato. E ne abbiamo la prova provata” ha invece sottolineato Giampiero Vellucci, l’avvocato che difende due delle quattro persone del servizio d’ordine indagate per rissa. “Il manganello che aveva in auto uno dei miei due assistiti era facilmente riconoscibile – ha continuato – dato che è molto colorato e con la scritta ‘boia chi molla‘. Tra l’altro era nell’auto del buttafuori che, stando anche alle testimonianze, non è entrato in contatto con il ragazzo“. I difensori dei due buttafuori, gli avvocati Giampiero Vellucci e Riccardo Masecchia, hanno escluso in modo categorico che i due giovani “abbiano mai impugnato corpi contundenti o, per l’appunto, il piccolo manganello rinvenuto nell’auto di uno dei due”. Gli avvocati inoltre hanno fatto sapere che “i due indagati restano pronti per essere interrogati dall’autorità giudiziaria, al fine di chiarire la propria posizione processuale”.
Scarcerazione lampo: Anm al fianco del gip che ha rilasciato Castagnacci
L’altro fronte caldo è invece quello della scarcerazione lampo di Castagnacci, che era stato arrestato il giorno prima del pestaggio a Roma e rilasciato poche ore dopo nonostante i suoi numerosi precedenti penali e il ritrovamento nel suo appartamento (che divideva con altre tre persone) di 300 dosi di cocaina, 150 di crack e 600 di hashish. Ieri il consigliere del Csm aveva chiesto l’apertura di una pratica ad hoc per valutare il comportamento del gip che ha concesso la liberazione del 27enne, mentre la Lega Nord ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Quest’ultimo, poi, ha detto in tv che sta valutando la possibilità di inviare gli ispettori ministeriali per capire cosa sia realmente accaduto.
A entrare nel merito della vicenda, oggi, è stata invece la sezione romana dell’Associazione nazionale magistrati. “La Giunta Anm – si legge in una nota – non intende entrare nel merito della vicenda processuale relativa all’arresto per la detenzione di stupefacenti né su quella scaturita dalla tragica morte del giovane. Non può tuttavia non stigmatizzare, in una fase delicatissima delle indagini per quest’ultimo delitto, le dichiarazioni di alcuni politici di rilievo nazionale – ha scritto l’Anm – riprese con sorprendente superficialità da una parte della stampa, tendenti a ricollegare i due gravi fatti. Tali affermazioni appaiono estremamente gravi ed assolutamente non condivisibili. Poco opportuna – si legge ancora il comunicato – riteniamo altresì la scelta di riportare sulla stampa il nominativo del giudice che avrebbe, secondo quanto si legge, convalidato l’arresto senza applicare alcuna misura cautelare, dopo la suggestiva riflessione che in caso di adozione della misura della custodia in carcere la vittima del pestaggio sarebbe ancora vivo”. Per l’organo di rappresentanza locale dei magistrati, tale “accostamento comporta una chiara indicazione di responsabilità che non ha fondamento alcuno da un punto di vista giuridico: nell’articolo di un giornale si indica infatti chiaramente che anche il Pubblico Ministero non aveva chiesto misure detentive, sicché come è ovvio il giudice non avrebbe mai potuto applicare la misura che secondo l’articolista avrebbe salvato la vita della vittima”.