Se davvero la "nuova rivoluzione industriale" fosse portata a compimento, dice al fatto.it lo studioso Antonello Pasini, l'effetto principale sarebbe l'aumento delle temperature globali e il peggioramento della qualità dell'aria che respiriamo
È stata salutata dal presidente Usa Donald Trump come “una nuova rivoluzione industriale” la firma dell’ordine esecutivo che “promuove l’indipendenza energetica e la crescita economica” degli Stati Uniti. Un provvedimento che sconfessa gli ultimi otto anni di politiche ambientali della presidenza Obama, segnando un ritorno ai combustibili fossili.
Obiettivi principali del provvedimento alcuni decreti firmati da Obama per mitigare gli effetti dei mutamenti climatici e il Clean Power Plan dell’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente, l’Epa. Il recente ordine esecutivo di Trump contiene, ad esempio, la revoca dei limiti alle emissioni di CO2 delle centrali elettriche, l’eliminazione di alcune restrizioni alle trivellazioni costiere e alle emissioni di metano dagli oleodotti e l’introduzione di una maggiore deregulation sulle valutazioni d’impatto ambientale per la realizzazione di infrastrutture.
Ma c’è un altro aspetto che preoccupa ancora di più lo studioso, e che avrà conseguenze più immediate e dirette. “Con questo provvedimento il rischio peggiore è di compromettere la salute umana – spiega lo scienziato del Cnr – Tornando a bruciare carbone, infatti, si libereranno più polveri fini, come il famigerato Pm10, nella bassa atmosfera. La stessa in cui noi tutti viviamo. Il paradosso è che nello stesso testo firmato dal presidente Usa si fa riferimento all’impegno dell’Epa a favore di acqua e aria pulite. Ebbene, questo provvedimento otterrà proprio l’effetto contrario: un peggioramento della qualità dell’aria che respiriamo. Basti pensare ai cieli delle città cinesi. O alle fitte nebbie che in passato, quando si usava il carbone per il riscaldamento, avvolgevano città come Milano. Le polveri sottili, infatti, agiscono da nuclei di condensazione per la nebbia”.
A rischio, per lo studioso, anche la “salute del suolo”, a causa delle regole meno stringenti per le procedure di estrazione dello shale gas tramite frazionamento idraulico, il cosiddetto fracking. “Ci stiamo ormai avvicinando al picco del petrolio, per cui – spiega Pasini – si tende a sfruttare il più possibile le risorse del suolo. Anche in modo meno pulito”.
C’è, infine, un habitat naturale particolarmente delicato che, secondo l’esperto, “potrebbe avere maggiori problemi ambientali”, ad esempio in seguito a una deregulation delle trivellazioni offshore. Si tratta del Polo Nord. “In questo territorio – spiega Pasini – il surriscaldamento del Pianeta fa sentire maggiormente i propri effetti, portando alla fusione dei ghiacci. Con conseguenze, a cascata, anche in altre regioni del Pianeta. Come la Siberia, dove il permafrost a sua volta si scioglie liberando metano, un potente gas serra. La fusione dei ghiacci artici, però, libera anche territori inesplorati che potrebbero far gola a molti ed essere oggetto di nuove pericolose trivellazioni”.