Pubblichiamo una anticipazione da Giustizialisti, il nuovo libro di Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, pubblicato da Paper First e disponibile nelle edicole e nelle librerie. Lo stralcio è tratto dal primo capitolo: "Il paradosso della custodia cautelare"
La riforma della custodia cautelare è stato uno dei cavalli di battaglia dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che a ottobre del 2016, alla vigilia del meeting della Leopolda, per indicare la necessità di un intervento legislativo, aveva citato il caso del fondatore di Fastweb, Silvio Scaglia, rimasto un anno in custodia cautelare e poi assolto. Il tema era stato trattato dall’ex Rottamatore discutendo della necessità di una riforma complessiva della giustizia, che prevedesse anche una più ampia responsabilità civile dei magistrati. Riforma poi puntualmente varata.
Come si può notare, dunque, questi strumenti delicatissimi dai quali passa l’effettività del sistema di prevenzione penale, spesso vengono riformati non pensando al cittadino comune, ma alle esigenze dei cosiddetti colletti bianchi, ovvero dei soggetti che sono posti in condizione di influenza e di potere politico-economico-istituzionale. Da questo deriva l’apparente contraddizione tra le posizioni di singoli esponenti, o addirittura di interi partiti, sulla loro concreta applicazione. Le norme che impediscono il ricorso alla custodia cautelare applicate correttamente ai manifestanti di piazza, fanno ritenere blanda l’azione dello Stato, perché riguarda comuni cittadini che hanno commesso comportamenti di immediato allarme sociale. Ci si accorge di ciò quando, dinanzi a soggetti dotati di un certo grado di pericolosità, non si può disporre la custodia cautelare. Quindi è semplice addossare ai giudici la responsabilità – anche se essi attuano ciò che i politici hanno deciso – come se potessero applicare in modo differente regole chiare e valide per tutti. Il problema è che quando si pensa a una riforma della custodia cautelare si pensa al “caso Scaglia” ritenendo che quelle norme siano troppo rigorose. Quando poi però quelle stesse norme si rivelano inefficaci a fronteggiare i “reati da strada”, chi ne contesta l’applicazione, a volte dimentica di averne voluto limitare l’ambito.
Abuso di custodia cautelare?
A riprova di questa contraddizione, uno degli argomenti più utilizzati nel dibattito sulla giustizia è che ci sarebbe un eccesso, o addirittura un abuso, della custodia cautelare. Stando ai dati ufficiali i detenuti in custodia cautelare in Italia, il 30 aprile 2016, erano 18.462 su un totale di 53.725 carcerati. Ma suddividendo i detenuti non definitivi per posizione giuridica si poteva rilevare che solo 8.983 erano in attesa del giudizio di primo grado, mentre 4.733 erano in attesa del giudizio di appello, 3.452 ricorrenti in Cassazione e 1.294 con posizione mista. E dunque, come si può notare, i giudicabili veri, ossia coloro che non hanno ancora ricevuto una condanna, sono poco più del 17%; mentre tutti gli altri detenuti sono già stati condannati. In altri ordinamenti essi non verrebbero considerati in attesa di giudizio ma riconosciuti colpevoli e in attesa di appello.
Inoltre, va tenuta in considerazione la natura dei reati per i quali è disposta la custodia cautelare, che coincide con le fattispecie che destano maggiore allarme sociale. Occorre inoltre considerare che raramente un detenuto risponde di un solo reato e che ciascuno risponde in media di circa tre reati. Ciò premesso la popolazione dei detenuti non definitivi – in base ai dati comunicati dal ministero della Giustizia in altra rilevazione – risultava così suddivisa: 8.657 rispondevano di produzione e spaccio di sostanze stupefacenti; 3.564 del reato di rapina; 2.792 del reato di omicidio volontario; 1.982 del reato di estorsione; 1.824 del reato di furto; 1.107 del reato di associazione di stampo mafioso; 809 del reato di ricettazione; 709 del reato di violenza sessuale; 356 del reato di associazione per delinquere; 320 del reato di maltrattamenti in famiglia; 137 del reato di sequestro di persona; 100 del reato di atti sessuali con minori; 83 del reato di lesioni personali volontarie; 74 del reato di istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione; 48 di reati contro l’amministrazione della giustizia; 33 del reato di bancarotta; 33 del reato di insolvenza fraudolenta; 32 dei reati di peculato, malversazione; 26 del reato di strage; 11 del reato di truffa.
Benché, dunque, quando si parla di abuso di custodia cautelare ci si riferisca alla possibilità che questa venga utilizzata verso i colletti bianchi, si tratta di un’affermazione imprecisa. Infatti, la custodia cautelare per questi ultimi non raggiunge neanche lo 0,3 % dell’intera popolazione detenuta.
Per molto tempo è stata in discussione – e ha rischiato di essere approvata – una proposta di legge sulla custodia cautelare che vietava di desumere la pericolosità dalle modalità del reato che si è commesso. Lo scopo di quella proposta era fare in modo che quello 0,3 per cento potesse ulteriormente assottigliarsi. Ma non sarebbero mancati gli “effetti collaterali”. Tanto per fare un esempio: in base a quella proposta normativa, se un criminale, essendo incensurato, commettesse una rapina in casa stuprando la vittima la sua pericolosità non potrebbe essere provata. Si tratta di una riforma che fortunatamente non è andata in porto. Ma c’è da scommettere che se fosse divenuta legge alla prima scarcerazione tutti coloro che l’avrebbero votata si sarebbero scagliati contro il giudice chiamato ad applicarla.