Il programma di RaiDue aveva senso vent'anni fa, in quel contesto televisivo, con un intrattenimento senza talent show. Giocare la carta della madeleine proustiana è sin troppo semplice. E oggi in tv vogliamo vedere altro
Se dovessimo far rivivere, per assecondare la nostra nostalgia, tutte le cose che abbiamo vissuto dieci, venti o trent’anni fa, la nostra vita si trasformerebbe ben presto in una patetica rincorsa al passato, in un tentativo commovente ma poco efficace di fermare il tempo, di illudersi che non sia mai passato e che ciò che funzionava allora può e deve funzionare anche adesso. Una riflessione che, evidentemente, non è condivisa da chi ha deciso di riportare in televisione Furore, il programma musicale di RaiDue, a vent’anni dall’esordio.
C’è ancora Alessandro Greco, conduttore allora e oggi, che da anni chiedeva a gran voce il ritorno del programma che lo aveva lanciato. E accanto a lui ci sono anche Gigi & Ross, sempre più volti di punta di RaiDue senza un vero perché. I due comici, già conduttori di Made in Sud e Sbandati, hanno il compito di “disturbare”, capeggiando ognuno una delle squadre in gara. Ma è un ruolo poco chiaro e definito, per nulla efficace, con il cazzeggio gioioso che si trasforma troppo spesso in caciara incomprensibile. Non che il vecchio Furore fosse così diverso da quello reloaded, sia chiaro, ma con la presenza di Gigi & Ross la svolta “animazione da villaggio turistico” è compiuta.
La responsabilità è del ruolo che è stato loro assegnato, un ruolo che ha poco senso e non contribuisce a rendere più piacevole il programma ma, al contrario, lo incasina, lo confonde.
Inutile, però, dare troppa responsabilità al duo comico (su cui la seconda rete sta puntando sin troppo), perché la colpa non è certo loro. Il punto è che Furore aveva senso vent’anni fa, in quel contesto televisivo, con un intrattenimento che era diverso da quello attuale. Non erano ancora arrivati i talent show, non c’erano ancora Amici e X Factor, non aveva fatto capolino in televisione neppure il Grande Fratello. Furore, dunque, all’epoca era un programma di rottura rispetto all’intrattenimento televisivo tradizionale. Ecco perché funzionava, perché parlava a un pubblico giovane che cercava evasione pura e cazzeggio e li trovava nel format condotto col solito entusiasmo da Greco.
Oggi, al contrario, Furore sembra una roba vecchissima, polverosa, un cadavere in totale stato di decomposizione riesumato d’imperio con la convinzione errata che possa riprendere miracolosamente vita.
Fa piacere vedere Greco felice e soddisfatto per aver riportato in tv la sua creatura, anche perché il conduttore è stato paziente e testardo, nel corso degli anni, a risalire la china dopo anni di oblio, a riconquistare uno spazio in tv e a farlo con il solito (e rarissimo) garbo. Simpatia per Alessandro Greco a parte, “Furore 20 years” sembra comunque una di quelle operazione a tavolino che giocano sull’effetto nostalgia ma non si preoccupano del contenuto, dell’effettiva resa qualitativa nella tv del 2017. Per la cronaca, la prima puntata ha ottenuto 1,9 milioni di spettatori e l’8,1% di share (non c’è il boom, ma è un risultato soddisfacente per la media di rete).
Ma il problema, come sempre, non è l’Auditel, bensì la difficoltà di provare strade nuove, di comprendere la rivoluzione del linguaggio televisivo negli ultimi anni. Giocare la carta della madeleine proustiana è sin troppo semplice, ma quelli che erano ragazzi nel 1997, oggi in tv vogliono vedere altro e il richiamo della nostalgia dura giusto una puntata, per vedere l’effetto che fa. Poi, una volta capito che Furore è invecchiato male (così come siamo invecchiati male noi), si torna a cercare qualcosa di televisivamente più contemporaneo e accattivante. Perché c’è un tempo per tutto, anche in tv.