Latrine di cemento con il buco, grandi prugne di gesso che rievocano il lato B, slogan ritriti “Are you really happy?”, tele bruciacchiate, scarabocchi e perfino un performer con la testa infilata in un magma scultoreo che se ne sta lì, sdraiato, immobile.
E’ l’arte, bellezza. Ma MiArt 2017, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea a FieraMilanocity, è anche grandi parallepipedi di cristallo nero retroilluminati, catturanti blocchi di vetro azzurrati di Ann Veronica Janssens, una testa pietrificata inclinata e fasciata di Igor Mitoraj e brandelli di bandiere di Mario Arlati che sembra anticipare l’editto Trump a favore dei dazi.
Ancora qualche ceramica sperimentale di Lucio Fontana e le dejà vu mappe di Alighiero Boetti, in mezzo tanta accozzaglia. Il giro nei lunghi padiglioni affollati come la Rinascente il primo giorno dei saldi non ha riservato grosse sorprese. La fiera la fanno le gallerie, fra quelle che lasciano un segno, lo spazio di Lia Rumma, doppia sede Napoli e Milano. Con le visioni al neon di Alfredo Jaar, un omaggio al poetico “M’illumino d’immenso” e il linguaggio scultoreo di Luca Monterastelli.
Faccio un salto in chiesa, quella sconsacrata di San Paolo Converso, sede mozzafiato dell’architetto supercool Massimiliano Locatelli (CLS architetti) e resto abbagliata dall’installazione di Franco Mazzucchelli, lo chiamano l’anti-Christo, perché mentre Christo, artista yankee, impacchetta, incellofa i monumenti, lui ci crea dentro una mega bolla d’aria.
Sempre Locatelli firma l’allestimento dei “Sixty Last Supper”, la rivisitazione pop di Andy Warhol del Cenacolo, al quinto pianto del Museo del Novecento. E quando si è sparsa la voce che per il dopo vernissage c’era una cena da Giacomo Arengario, superblindata, sospesa fra le guglie del Duomo, è cominciata la girandola di whatsapp: tu ci vai? Io no, l’invito era solo per paperoni collezionisti. Il padrone di casa era Gagosian, uno che se la tira più di una locomotiva a 200 all’ora, il gallerista risolto che ha risolto la vita di tanti artisti wannabe (vorrei essere…).
Dall’Amazzonia all’Antartide, la sua è una passione devozionale, Anne De Carbuccia ha trasformato una fabbrica dismessa di ferramenta in zona Lambrate nel suo laboratorio, il grande osservatorio di coscienza di ONE: One Planet, One Future. Il Polo Nord e la grande barriera corallina non sopraviverranno nell’immediato futuro. L’impegno di Anne corre su doppio binario, sì, corre perché non c’è tempo da perdere. Il pianeta è uno e noi siamo in tanti che lo stiamo distruggendo. Il momento rivelatorio è quando si entra nella stanza dedicata alla Terra dei Fuochi, all’ombra del Vesuvio, una distesa di rifiuti tossici dissoterrati.
Anne non ha il potere di salvare da sola il pianeta da inquinamento, guerre e distruzioni ma ogni suo scatto è un pugno nello stomaco, una presa di coscienza e un atto d’accusa contro il più grande nemico di One Planet: l’uomo. Dovremmo tutti gridare: Io non ci sto, Io non ci sto… all’infinito. Perché i crimini contro l’ambiente sono crimini contro l’umanità. Parola di Anne.
Twitter@januariapiromal