L'infrastruttura avrebbe dovuto potenziare la copertura di irrigazione dei campi della Piana di Catania. Dopo 27 anni è rimasta incompleta e abbandonata, nonostante le tante promesse di diversi presidenti di Regione, come Rosario Crocetta, Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro. "I lavori iniziati nel 1990 senza autorizzazioni e senza essere sottoposti a una valutazione di impatto ambientale” sostiene Roberto De Pietro, l'ingegnere autore di un particolareggiato studio sulla questione
Non c’è regione in Italia che possa contenderle il triste primato. Che siano 149, come si legge nell’elenco regionale, pubblicato dall’ufficio speciale di coordinamento delle attività tecniche e di vigilanza sulle opere pubbliche della Regione, o 113 come registrato sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, poco importa. La Sicilia è l’indiscussa leader delle infrastrutture nazionali incompiute. Nelle campagne di Caltagirone, al confine tra il territorio di Aidone in provincia di Enna e quello di Mineo nel Catanese, sul fiume Margherito, c’è uno di quei relitti. La diga di Pietrarossa, l’infrastruttura che avrebbe dovuto potenziare la copertura di irrigazione dei campi della Piana di Catania, è lì, da 27 anni.
Incompleta e abbandonata. Ma non dimenticata. Hanno promesso di portarla a termine non solo Rosario Crocetta, l’attuale Presidente della regione siciliana, ma anche Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, i suoi predecessori. Gli agricoltori dei Consorzi di bonifica che sono nell’area ne chiedono il completamento, la politica regionale s’impegna. A parole. Così a febbraio la questione è riproposta da Nello Musumeci, deputato della Lista Musumeci verso Forza Italia, che presenta un’interrogazione “al governo regionale per completare i lavori”. Insomma sembra proprio l’ennesima storia di un’opera pubblica mai terminata che invece sarebbe utile completare. Non è così. “La diga di Pietrarossa è un’opera pubblica abusiva, che va demolita, con il conseguente ripristino dei luoghi e uno studio archeologico dell’intera zona, finalizzato al pieno recupero dei reperti dell’insediamento romano venuti alla luce in contrada Casalgismondo“, proponeva nel 2010 Sebastiano Russo, presidente del circolo “Il Cigno” di Legambiente di Caltagirone.
“La diga di Pietrarossa è un’opera da demolire. Oltre a essere un abuso in un sito archeologico, si caratterizza per irregolarità e violazioni di legge”. Roberto De Pietro, l’ingegnere autore di un particolareggiato studio sull’opera, è categorico. Eppure la diga è stata realizzata al 94,61% e sono stati spesi 75.147,869 euro stanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. “La diga è stata pensata in un periodo in cui opere simili si realizzavano in Sicilia, violando leggi, a volte in modo sfacciato”, spiega l’esperto. Il lungo iter dell’infrastruttura inizia nel 1988, prima con lo stanziamento dei soldi pubblici e dopo con la Lodigiani spa – CO.GE.I spa che si aggiudica l’appalto. E’ il 1990 quando i lavori lavori affidati al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone, in regime di concessione dall’Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno, iniziano. “Senza autorizzazioni, sprovvisti del preventivo nullaosta della Soprintendenza di Enna e senza essere sottoposti a una valutazione di impatto ambientale”, scrive De Pietro.
Nonostante la procura di Enna abbia avviato un’inchiesta già da tempo, il cantiere subisce un primo stop soltanto nel 1993. Già perché nel frattempo è stato scoperto un vasto insediamento romano, solo parzialmente indagato. Il fermo dura poco. I lavori riprendono per poi arrestarsi definitivamente nel 1997 quando i magistrati di Enna emettono il provvedimento di sequestro della diga e dodici avvisi di garanzia per abuso, rifiuto di atti d’ufficio, deturpamento di bellezze naturali e archeologiche. Due anni prima, un altro capitolo della storia. Sulla struttura si rilevano alcune lesioni. La Lodigiani-Cogei chiede un nuovo finanziamento. Ulteriori 20 miliardi di lire per provvedere ai lavori imprevisti. Colpa del sisma del 1990, afferma l’impresa. Ma non è così. Un’inchiesta della procura di Caltagirone accerta che i danni danni sarebbero dovuti a errori nella costruzione e che l’impresa avrebbe tentato una truffa. Il fermo lavori del 1997 non è senza conseguenze. L’impresa di costruzioni Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa, subentrata alla Lodigiani-Cogei, avvia una causa di risarcimento per danni subiti a seguito della sospensione. Una sentenza del Tribunale di Catania ne quantifica un credito nei confronti del Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone pari a circa 4,7 milioni di euro. Nel 2014 con un atto di Pignoramento notificato presso la Regione Sicilia la società Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa ha pignorato tutte le somme a qualsiasi titolo dovute dall’Assessorato regionale dell’Agricoltura al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone. Non è tutto. Il Consorzio a sua volta avvia una causa civile contro l’impresa. Il Motivo? Risarcimento danni.
Una questione quasi senza soluzione. Così a marzo 2015 il deputato del Pd Luca Sammartino chiede all’assessore regionale all’agricoltura Nino Caleca di “utilizzare fondi comunitari o accantonamenti di bilancio che sono disponibili per chiudere il contenzioso con Impregilo e sbloccare, così, il completamento della diga di Pietrarossa”. Non se ne fa nulla. Per fortuna, secondo l’ingegnere De Pietro. “La diga… se entrasse in funzione, aggraverebbe l’arretramento del litorale sabbioso in prossimità della foce del Simeto“, sottolinea l’esperto. Senza contare “l’abbassamento delle falde acquifere, l’alterazione degli ecosistemi, i danni alla flora e alla fauna, in particolare a quella ittica”. Così, dopo un impegno ingente di risorse pubbliche, la parziale distruzione di un sito archeologico e le molte criticità che la realizzazione dell’opera avrebbe comportato, si rafforza un quesito. Perché mai non sono state fatte preliminarmente le corrette valutazioni? Osservando quel che accade troppo spesso in Sicilia quel quesito sembra destinato a rimanere senza risposta.