A mostra conclusa – Artevideo & Multivision, Rotonda della Besana, Milano 1975 – rividi Bill Viola nell’ambito della Biennale alla quale, nonostante il successo di critica e pubblico, non venni invitato perché, pur preavvisato, non avevo richiesto il permesso a non ben identificati (in quanto a me totalmente estranei) sindacati che allora pareva controllassero persino la Biennale di Venezia. A quest’ultima venni invitato l’anno successivo insieme a tutti gli altri artisti dell’Operazione Arcevia. Nel frattempo, mi accontentai dei complimenti di Bill, secondo il quale avevo realizzato un modo totalmente nuovo di utilizzare il multivision system mai visto nemmeno negli Usa.
Oggi Bill Viola, nelle sue istallazioni video-audio, utilizza lo slow motion – il contrario del multivision system – che, rallentando allo spasimo i movimenti, facilita la stimolazione e la conseguente emersione di taluni aspetti inconsci. Così per esempio nell’istallazione The Greeting, in cui un pre-filmato di 45 secondi viene esteso a dieci minuti. Questa la ragione per cui le opere di Viola, per usare le sue stesse parole, “trasformano la nostra percezione per guardare finalmente non davanti ma dentro di noi”, esattamente quel che mi è successo nel buio delle sale di Palazzo Strozzi, al cospetto dei suoi affreschi elettronici, così recuperando brandelli “rimossi” di quel che mi era accaduto durante il percorso di vita e che la mia memoria riportava automaticamente alla luce come temperie di ricordi scomodi, dolorosi addirittura, comparando automaticamente il mio percorso con quello di Bill Viola.
Per la realizzazione di La Società dello Spettacolo in multivision, un progetto in parte finanziato da un’influente ex compagna universitaria, avevo dato fondo alle ultime risorse e, lasciato il residence milanese che mi ospitava, ero andato ai materassi, dove l’unico suppellettile è, appunto, costituito da un materasso sul pavimento. Sopravvivendo alla meno peggio cercando di distribuire la multivision ma senza riuscirci (senza fondi è arduo trovarne altri) fui costretto a smontarla perdendo definitivamente un’opera unica nel suo genere, che da allora nessuno ha più avuto modo di vedere. Il pannello di riferimento visivo sull’evoluzione degli strumenti di comunicazione, illustrato da Mario Convertino, lo cedetti al dipartimento di Comunicazione della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze che, accogliendolo come sorta di reperto fantascientifico, lo rinchiuse in una vetrina tardo ottocentesca, dove probabilmente giace ancora oggi.
Quel che mi successe poi – svariate esperienze in quasi tutti i campi della comunicazione non prive di qualche soddisfazione – è sintetizzabile nella vana ricerca di un settore indipendente dal controllo politicante: un sogno irrealizzato e irrealizzabile sia nel bel paese di allora che nell’ex bel paesino di adesso, entrambi ossessionati dalla politica e dalla sua attardante burocrazia: tempi dilatati, linguaggi barocchi, “vaghezza nell’eloquio” (citando Ernesto Galli della Loggia), violazione dei patti, irresponsabilità cronica, meritocrazia assente, metodologie inadeguate come i derivati politici che pre/siedono anche alle così/dette istituzioni d’arte che assorbono fondi a loro esclusivo uso e consumo, e rispetto alle quali, anche gli artisti, i ricercatori o gli scienziati, vengono trattati come sudditi da questa sorta di supponente, supposta e inamovibile neo-“aristocrazia” (sic!).
E ancor oggi, ormai varcata la soglia dei quarti “anta”, tutte le volte che obtorto collo mi ritrovo costretto a dovermi rivolgere a una qualsivoglia istituzione, mi sento nei panni del postulante di un qualche servizio per il quale, non fosse altro che per il background accumulato, dovrei quantomeno ricevere un ascolto adeguato.
Comunque sia o sia stato, è grasso che cola rispetto al caso di Sabina Berretta che, sognando di fare la scienziata in Italia, dopo anni di ricerche non pagate e sottovalutate, pur di poter continuare i suoi studi, cercò inutilmente di fare la bidella, divenendo l’ennesimo cervello in fuga, oggi alla testa della più prestigiosa banca dei cervelli del mondo, quella del MIT dell’Harvard University.
John Berger, già ex sessantottino, poi artista e critico d’arte di una rivista diretta da George Orwell, ebbe a dichiarare: “Non trascino io la politica, è l’arte che mi ha trascinato nella politica”. Mentre un artista del calibro di Giulio Paolini, ha recentemente vergato che: “ L’Arte non è e non potrà mai essere politica”.