Se qualcuno si aspettava da Massimo Carminati una deposizione alla Totò Riina, tutta ossequi alla Corte e messaggi da leggere in controluce, certamente è stato deluso. Ma nei due giorni di interrogatorio nell’aula bunker di Rebibbia, sia pure con la tracotanza di un bullo di periferia, un pezzo di verità alla fine il Cecato l’ha raccontata. Con uno slang un po’ triviale che è ormai l’unico vocabolario con cui il “mondo di sotto” comunica con il “mondo di sopra”, passando per quel “mondo di mezzo” dove lui ha navigato per quasi quarant’anni. Senza mai esplicitarlo ci ha fatto finalmente capire la natura del patto che ha consegnato questa città, dissestata come l’asfalto delle sue strade, a Mafia capitale. Che niente ha a che spartire con altre mafie che occupano parte del territorio nazionale, essendo fenomeno endemico fin dai tempi della Roma papalina che orgogliosamente affondava il suo potere più nella rete catacombale della città che nelle cupole michelangiolesche…
Più volte il coltello dell’accusa è stato costretto ad affondare in metafore scurrili ma che riassumono il non detto di questo processo. Cosa intendeva dire Carminati, ha chiesto il pm Ielo, quando rivolgendosi all’amico Brugia chiosava: “C’è chi sa tené er cecio al culo e chi no”. Di quale cecio si parla, un segreto certamente fastidioso che impone il silenzio? Di “ceci” di questo tipo Carminati ne ha collezionati parecchi, un capo non parla ma – sembra di capire – deve stare attento che tutti quelli che sanno non parlino. Dal silenzio deriva il suo potere e la sua forza d’intimidazione. Dunque è lui il garante, ma di cosa e rispetto a chi? E’ vero che ha minacciato, anzi pestato. Riccardo Mancini, ex bracco destro di Alemanno e ai tempi della Giunta capitolina presidente dell’Ente Eur, prima che deflagrasse lo scandalo Finmeccanica per il quale fu arrestato? “Ma che… quello pesa cento chili, io settanta, me menava lui… e poi io e Riccardo siamo amici da ragazzini, c’avevamo 13 anni, gli voglio bene”.
Quel “volemose bene” che a Roma tutto aggiusta e smussa, perfino gli antichi odi tra destra e e sinistra. Pure a Salvatore Buzzi, suo coimputato, Carminati vuole bene. “Ce siamo subito intesi, lui è una macchina da guerra… da vero comunista, lo devo riconoscere…”. Veniamo al punto, chiede ancora Ielo: qual era il rapporto associativo, imprenditoriale tra lei e Buzzi? Semplice: “Io garantivo la commessa prelevando da una mia riserva personale, poi gli utili venivano divisi al 50 per cento”. Esempio. L’appalto per la costruzione del campo nomadi è affidato a Caminati che appozza da una riserva di 300mila euro, “guadagnati” con Eur spa. In questo caso la commessa è da 500mila, che con l’appalto elettrico e fognario sale a 750mila, tolti i 240mila di spese che rientrano tutti, il guadagno a “stecca para” con Buzzi è di altri 250mila. “Senza investire un euro”, vanta il Cecato.
Resta da capire come sia riuscito a guadagnare in un colpo 300mila euro con l’Ente Eur di Mancini, ma questo non lo dice ed è qui che s’intravede la natura del patto e la forza di intimidazione che soltanto Carminati poteva garantire. Alemanno, che lui dice di non aver mai conosciuto e che non stima, aveva un problema: la destra non era in grado di governare Roma, la macchina amministrativa era sempre stata di sinistra, tutti gli appalti erano in mano alle cooperative che se volevano continuare a lavorare dovevano fare accordi con la nuova Giunta. Prima le manifestazioni in piazza capeggiate da Buzzi, poi il silenzio. L’accordo era stato trovato, basta volersi bene.
Ma come e in che modo è una domanda che soltanto il passato, che in questo processo non compare, può spiegarci. Un passato che tutti conosciamo ma che affiora quasi sbadatamente soltanto in alcuni passaggi dell’interrogatorio. La banda della Magliana? “Ero amico di Franco Giuseppucci, abitavamo vicini da ragazzini…. era un bravo ragazzo”. Ma il nome di De Pedis con il quale ha guadagnato miliardi grazie alle slot machine non lo fa: “Noi eravamo fascisti, avevamo ideali da cui non abbiamo guadagnato niente”. Bugia, ma nessuno può contestarla. Una folla di “bravi ragazzi” popola i ricordi di Carminati, dal film C’era una volta Roma dove si sparava e si ammazzava come niente fosse. Una Roma che i “bravi ragazzi” se la sono presa e a quanto sembra pure ripresa in anni recenti, disseminata di omicidi inconfessabili, prezzi pagati ai poteri che pure s’intravedono. “Io con i servizi non c’entro niente e mi incazzo se me lo dicono….”, si infervora il Cecato. Eppure sulle sue spalle ancora gravano episodi oscuri, omicidi eccellenti: Pecorelli a Roma, Mattarella a Palermo, il deposito di armi al Ministero della Sanità, quel mitra che lo ha coinvolto nel depistaggio sulla strage di Bologna per il quale sono stati condannati Gelli, Pazienza e il generale Musumeci, capo della famigerata settima divisione del Sismi.
Uno dei “ceci” più grossi, senza enfatizzare, resta la rapina al caveau della Banca di Roma all’interno del blindatissimo tribunale di piazzale Clodio. Carminati ci andò con gli amici di sempre, Riccardo Brugia, Er Gnappa, altri ancora e due carabinieri. Siamo a luglio del 1999. “Noi lì siamo andati a ruba’, se io c’ero qualche soldo me lo sono portato”, tiene a precisare. Per questa rapina una condanna a 16 anni l’ha presa, finito di scontarla ai servizi sociali Mancini l’ha aiutato a cercare lavoro ed è nata Mafia capitale. Quanti soldi sono spariti dal caveau? C’è chi dice 18 milioni chi 50 miliardi, la verità non la sapremo mai. Di sicuro a loro toccarono contanti e gioielli, ai mandanti i documenti che erano il vero obiettivo della rapina. Il Cecato ha fatto fotocopie? Troppo pericoloso, queste sono circolate soltanto nel “mondo di sopra”.
Come il dossier che sarebbe scomparso dalla cassetta di sicurezza dell’ex Alto commissario Domenico Sica, prima ancora pm di Roma, nel ’99 prefetto a Bologna. Dentro ci sarebbe stato, il condizionale è d’obbligo, un dossier su Carlo Azeglio Ciampi, appena nominato capo di Stato, riguardante un suo presunto viaggio nell’estate ’89, dieci anni prima. C’era appena stata la fallita strage all’Addaura e imperversavano le lettere del Corvo, lui era ancora governatore della Banca d’Italia, e stando ad alcune intercettazioni Saro Spadaro, il re degli hotel di Saint Martin in odore di mafia, lo attendeva nell’isola caraibica dove, secondo i pm di Palermo, sarebbe iniziata la trattativa sul 41 bis, ripresa nel ’93 quando lo stesso Ciampi divenne presidente del Consiglio. Sulla vicenda ci fu anche un’informativa del capo della Dia Gianni De Gennaro, come riportato domenica da Il Fatto. Ma alla fine il figlio di Ciampi raccontò che ad andare a Saint Martin era stato lui per motivi di lavoro, tutto fu archiviato e relegato ai dossier scomparsi.
Ma c’è anche un’altra trattativa, anzi “trattativona“, per bloccare i ricatti a Papa Wojtyla sui soldi della mafia investiti per finanziare Lech Walesa. Nelle cassette sarebbero state trovate tracce di passaggi di proprietà e piantine catastali di locali e appartamenti della Santa Sede, ceduti al banchiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti e ad altri boss. Carte conservate sembra nella cassetta del senatore Claudio Vitalone e forse anche di alcuni magistrati che avevano indagato sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ma per questo bisogna aspettare un altro processo, quello che non si farà mai. Il tempo è scaduto, resta la verità sottesa che fa dire a Carminati con iattanza: “Noi forse abbiamo soltanto tre comandamenti ma li rispettiamo, c’è chi ce ne ha dieci e non ne rispetta nessuno”.