Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, dixit: “Bisogna ribadire la centralità della libertà economica perché senza libertà economica non c’è alcuna possibilità di crescita e di sviluppo. Scommettere ancora sul libero mercato, il più grande motore di prosperità della storia”. Così, testuali parole: pronunziate nella sede di Confindustria al ‘B7 Business Summit’ (rigorosamente in inglese, giusto per chiarire che non è l’interesse nazionale quello di cui ci si occupa; o, per lo meno, l’interesse della nazione italiana). “Fiducia e libertà economica sono collegati. Senza fiducia e coesione sociale nella nostra società il meccanismo del libero mercato potrebbe incepparsi. Ma dall’economia aperta parte il meccanismo per ricostruire la fiducia di cui abbiamo bisogno”. Sono anche queste parole di Gentiloni. Insomma, la solita storia, l’usuale omelia liberista, il sempre ribadito vangelo del competitivismo, l’ubiquitario peana del mercato libero come dogma insindacabile.
Crescita, sviluppo, libertà della circolazione: ecco la sacra Trinità della teologia economica al servizio del monoteismo idolatrico del mercato deregolamentato. Se il nuovo Dio è il mercato, il male, per converso, è tutto ciò che può limitarlo, governarlo, gestirlo. Ecco, dunque, che il nuovo male, per i cantori ditirambici del mercato à la Gentiloni, è dato dallo Stato, dai diritti sociali, dalle religioni della trascendenza, da ogni forza politica non asservita all’economia sovrana aspirante alla completa spoliticizzazione.
È una religione a tutti gli effetti quella del libero mercato, occorre averne contezza. Ci chiede fede e devozione, anche al netto delle più lampanti tragedie (crisi 2007, ecc.). L’insistenza di Gentiloni sul nesso tra economia e fiducia è a dir poco commovente. Un’ortodossia fermissima, che non tollera eresie né visioni altre, subito diffamandole, ostracizzandole, silenziandole. Nel discorso ultrateologico di Gentiloni – prestate attenzione – non v’è traccia di parole certo oggi desuete e obliate come “giustizia sociale”, “popolo”, “diritti del lavoro”, “interesse nazionale”. Nulla. Chiunque osi ancora evocarle passa anzi per un antidiluviano fuori tempo massimo, tanta è la pressione ideologica ovunque esercitata.
In sostanza, Gentiloni, che lo sappia o no, sta difendendo una sola libertà, fintamente spacciata per universale: la libertà del mercato mondializzato e desovranizzato, che sta massacrando i lavoratori e la piccola impresa nazionale e che sta giovando unicamente alla cinica classe dell’oligarchia finanziaria apolide e sradicata. L’età secolare di cui siamo abitatori avrà anche smesso di credere a Dio: ma si è riconvertita all’ebete e folle fede in quelli che, con la formula del sommo poeta, potremmo chiamare gli “dei falsi e bugiardi”.