Il sindacato Unadis sostiene che ci sono rischi di compressione "della sicurezza e della libertà personali" e del diritto all’oblio, "poiché tutti i dati pubblicati online sono facilmente consultabili da qualsiasi cittadino". Come prevede il decreto Madia che ha recepito in Italia il Freedom of information act statunitense
I dirigenti pubblici non demordono: chiedere loro di rendere noti i propri patrimoni equivale, dicono, a una “persecuzione“. Che rischia addirittura di violare la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo. Di conseguenza, come annunciato a fine marzo, il sindacato che li rappresenta (Unadis) ha presentato ricorso al Tar del Lazio contro la pubblicazione online di quei dati, prevista dal decreto Madia sul Freedom of information act italiano che garantisce ai cittadini l’accesso a ogni informazione in possesso dello Stato. La richiesta è quella di annullare l’obbligo, tradotto in linee guida dall’Anac e in circolari applicative dai vari ministeri, di pubblicare entro il 30 aprile i dati sulle loro proprietà immobiliari e non, dalle auto a ogni altro bene. La norma si applica ai 140mila dirigenti pubblici e ai loro familiari.
Nel ricorso, presentato dopo che il Tar ha accolto una richiesta analoga arrivata dai capi dei dipartimenti e dei servizi del Garante per la protezione dei dati personali, si evidenziano rischi di compressione “della sicurezza e della libertà personali“. Il riferimento è al pericolo, ventilato dalla segretaria generale Barbara Casagrande, che “i malintenzionati” possano usare quelle informazioni per “seguire fino a casa” dirigenti particolarmente facoltosi. Anche se le linee guida messe a punto dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) non prevedono affatto che siano indicati gli indirizzi: anzi, i responsabili della trasparenza nominati da ogni amministrazione sono tenuti a depurare tutte le informazioni dai dati sensibili.
L’Unadis fa poi richiesta di rimessione degli atti, ‘ove necessario’, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in quanto la pubblicazione dei dati violerebbe a suo giudizio i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo e “finanche il diritto all’oblio, poiché tutti i dati pubblicati online sono facilmente consultabili da qualsiasi cittadino, anche da colui che non è interessato al dirigente in questione”. Inoltre “i dati una volta on line rimangono in rete anche nel momento in cui vengono cancellati dai siti delle amministrazioni”.
“L’idea di perseguitare il dirigente perché necessariamente corrotto e fannullone è tipica del nostro Paese, non avviene altrove”, ha commentato Casagrande. “Nel ricorso abbiamo sottolineato proprio questo: nemmeno il Foia americano tanto decantato ha obblighi così stringenti e lesivi della persona. A ribadirlo non siamo stati solo noi ma lo stesso garante della privacy. Non è questo il modo di combattere la corruzione”.
I dirigenti pubblici lo scorso novembre l’hanno avuta vinta dalla Consulta, che ha bocciato il decreto attuativo sul ruolo unico e sulla loro licenziabilità. La relativa delega scadeva il giorno dopo, per cui il governo ha dovuto capitolare: addio incarichi a tempo e addio licenziamento per chi resta troppo a lungo senza poltrona. Ora sperano che, grazie al Tar, anche la trasparenza sui patrimoni finisca in una bolla di sapone.