Il ministro degli Esteri: "Non siamo nati ieri. Torrisi? O si dimette o è fuori da Ap". Ma il diretto interessato: "Sua richiesta irrituale, manco nel partito comunista sovietico". E alla fine l'ex guardasigilli allontana il neo presidente della commissioni Affari Costituzionali. L'ex segretario del Pd: "Il fronte del no al referendum, al Mattarellum, all’Italicum, quello che ha votato Torrisi e ora è maggioranza, adesso faccia qualche proposta"
La minaccia evidentemente non era poi così irresistibile. E alla fine Salvo Torrisi ha deciso di tenersi la poltrona di presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato, nonostante Angelino Alfano lo avesse avvisato: “Si dimetta o è incompatibile Alternativa Popolare”. Il parlamentare, però, non si è dimesso. E alla fine il senatore che fatto scoppiare il caos in maggioranza non rappresenta più il partito di Alfano. Almeno secondo il suo stesso leader. “Ha fatto la sua scelta, amen”, dice il ministro degli Esteri. “Il gruppo di Ap mi ha espresso solidarietà, ha condiviso la mia posizione. Io resto al gruppo”, resiste però il diretto interessato. Poco prima dal Nazareno era stato Matteo Renzi a intervenire sull’affaire Torrisi, bollandolo come un episodio “episodio grave e profondamente antipatico“. Sembra essere questo l’epilogo del caso esploso ieri a Palazzo Madama, quando il senatore di Ap era stato eletto a sorpresa presidente della commissione Affari Costituzionali al posto del democratico Giorgio Pagliari.
Sulla carta era solo una poltrona, solo una semplice e singola poltrona seppure importante perché al vertice della commissione che dovrà dettare le regole del gioco una volta che la legge elettorale sarà arrivata a Palazzo Madama. E poi non era certo finita sotto le terga di un esponente dell’opposizione, ma al contrario sotto quelle di un alleato di governo, che peraltro da mesi ricopre già il ruolo di vicepresidente. E invece lo strappo che si è consumato al Senato è riuscito in poche ore a fare andare in tilt la maggioranza, con il Pd che è andato all’attacco degli alfaniani, obbligando alla reazione il ministro degli Esteri.
“Dal Pd leggo cose surreali dette da Orfini quando nell’accaduto in commissione ci sono proprio responsabilità del Pd“, ha detto Alfano prima di alzare il tiro: “Non siamo ingenui e non siamo neanche nati ieri se qualcuno cerca pretesti per creare fibrillazioni nella legislatura e nel governo e andare a elezioni anticipate, allora lo dica chiaramente”. E Torrisi? “Mi ha chiesto 24 ore per rifletterci. Ma visto che si tratta di una questione di principio è chiaro che una sua permanenza alla presidenza è incompatibile con Ap”. Una sorta di “che fai mi cacci?” in sedicesimo, viste le dimensioni del partito di Alfano.
E infatti, poco dopo, è lo stesso Torrisi a definire l’intervento del suo leader come “irrituale” .”Sono preoccupato per Alfano, manco il partito comunista sovietico faceva queste cose. Se mi fossi dimesso ieri, oggi non saremmo riusciti a chiudere la discussione generale sul decreto sicurezza e a fissare il termine per gli emendamenti. Io lavoro per le istituzioni”, dice il deputato catanese, escludendo quindi l’ipotesi dimissioni. Risultato? Torrisi è il primo parlamentare allontanato nella storia del partito di Alfano. “Prendo atto della scelta del senatore Torrisi. Amen. Ha scelto la sua strada. La nostra è diversa: il senatore Torrisi non rappresenta Ap al vertice della commissione Affari Costituzionali”, sentenzia il ministro degli Esteri, che ha preferito sacrificare uno dei suoi pur di preservare l’alleanza di governo. Come dire: la Farnesina val bene un Torrisi.
Nel frattempo, infatti, era stato Renzi a intervenire direttamente sulla questione. Prima smentendo un retroscena pubblicato da Repubblica, secondo il quale l’ex segretario avrebbe parlato di “problema della maggioranza di governo”. Poi radunando i sostenitori della sua mozione al Nazareno, dove ha definito il caso Torrisi come “un episodio grave e profondamente antipatico, non si può tornare al linguaggio della prima repubblica. La parola crisi di governo non la vogliamo sentire pronunciare. Questi sono giochini da prima repubblica”. Quindi l’ex premier ha rispedito la palla nell’altra metà del campo. “Il fronte del no al referendum, al Mattarellum, all’Italicum, quello che ha votato Torrisi e ora è maggioranza, adesso ci faccia qualche proposta”, ha detto. E se Renzi al Nazareno blinda – a parole – “il lavoro del governo che va difeso e incoraggiato“, nelle ultime ore sono stati i suoi fedelissimi ad andare all’attacco in ordine sparso: c’è chi attacca gli alleati di governo, ma soprattutto chi profetizza una crisi imminente della maggioranza.
Il vicesegretario Lorenzo Guerini, e Matteo Orfini, segretario ad interim, per esempio, parlano di “vulnus gravissimo” e chiedono un incontro al Quirinale che com’era ampiamente prevedibile cade nel vuoto. Il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato, invece, parla di “mancanza di stabilità in Parlamento” aggiungendo che “quello che è successo al Senato è un fatto molto grave per la caduta del principio di lealtà e di fiducia all’interno della maggioranza”. La legge elettorale, prosegue Rosato attaccando i fuoriusciti di Mdp, “è in calendario a maggio e sono ottimista sulla possibilità di farcela. Certo, si deve ripartire da un principio di lealtà che con i partiti di maggioranza va confermato. Altrimenti ognuno di noi ha le mani libere di fare gli accordi che vuole”.
È una resa di conti, quella che secondo molti quotidiani Renzi va cercando all’interno della maggioranza. La seconda puntata, dopo il faccia a faccia del 4 aprile tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e i parlamentari dem alla Camera in cui il fronte dei renziani è andato al muro contro muro soprattutto sulle privatizzazioni e sulla riforma del catasto. La Stampa, ad esempio, sottolinea la “corsa al Colle” scattata attorno alle 17 di mercoledì, con la richiesta di un colloquio col capo dello Stato per valutare le conseguenze dell’elezione di Torrisi. Iniziativa irrituale, sottolinea il quotidiano di Torino, perché i presidenti della Repubblica non hanno mai interferito nella dialettica parlamentare. Ma l’importante è lanciare un segnale: “Il sintomo mai placato di un desiderio di confronto elettorale anticipato”, lo definisce Pino Pisicchio. “È successa una cosa grave non tanto per il fatto in sé ma per il segnale che manda. Due pezzi importanti della maggioranza che hanno votato contro un accordo preso e contro il principale partito della maggioranza, senza dirlo, a voto segreto, con un’intesa sottobanco con le opposizioni”, dice Orfini riferendosi ai voti di Mdp e Ap. A replicargli è Pierluigi Bersani. “Invece di andare alla ricerca del capro espiatorio – dice l’ex segretario dem – basterebbe contare. Chi ci accusa evidentemente non sa contare fino a 16, perchè basta fare i conti”.
Insomma il caso Torrisi rilancia una prepotente voglia di urne, che però potrebbe rimanere repressa. “Temo che si voglia andare alle elezioni con questa legge elettorale perché ha i capilista bloccati. Il che vorrebbe dire larghe intese o instabilità”, dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando al Corriere della Sera.L’elezione del senatore di Ap, prosegue La Stampa, è frutto di un’operazione firmata in team da Anna Maria Bernini di Forza Italia, il leghista Roberto Calderoli e Loredana De Petris di Sel. “Renzi – spiega chi vi ha preso parte – preparava una sceneggiata: farsi approvare dalla Camera il Mattarellum, poi venire al Senato e davanti alla bocciatura della legge gridare allo scandalo e fare la vittima”. Adesso però con Torrisi presidente della Commissione a Palazzo Madama l’operazione risulterebbe molto più complicata.