Azione militare in Siria. Non è più solo un’ipotesi, bensì un’opzione concreta che si trova sul tavolo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. A rivelarlo è la Cnn che, citando fonti specifiche, ha spiegato come l’eventuale intervento degli Usa sarebbe una sorta di rappresaglia per l’attacco con armi chimiche che ha portato alla morte di 86 persone (almeno 30 i bambini) a Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib. Secondo la Cnn, inoltre, è stato lo stesso tycoon a riferirlo a membri del Congresso. Una decisione ancora non è stata presa, ma Trump si sta consultando con i suoi esperti, tra cui il capo del Pentagono, James Mattis. E sta facendo passi avanti: Mattis, infatti, ha già presentato le opzioni di intervento militare. “Molte opzioni” ha detto il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. “Qualcosa dovrebbe accadere” ha confermato lo stesso Trump, annunciando un colloquio a tema con Putin. Dichiarazioni, queste ultime, rilasciate in una conversazione con i giornalisti a bordo dell’AirForceOne che lo portava in Florida per l’incontro con il leader cinese Xi Jinping. “Sono pronto ad agire da solo sulla Corea del Nord” ha anche aggiunto il leader statunitense.
Tornando alla Siria, se azione militare sarà è presto per dirlo: di sicuro quelli di oggi non sono segnali di pace. E pongono tutta una serie di dubbi sugli equilibri geopolitici mondiali: vien da sé che un intervento degli Stati Uniti in Siria contro Assad sarebbe un attacco indiretto anche contro chi sostiene il dittatore di Damasco. Ovvero Vladimir Putin e la Russia. La decisione è dunque ora nelle mani del segretario alla Difesa, l’ex generale James Mattis, che insieme al capo di Stato maggiore delle forze armate Usa Joseph Dunford, dovrà valutare tutti i pro e i contro di un’eventuale escalation. A partire – come detto – dalle possibili reazioni di Mosca ma anche di Teheran. Il rischio è immenso: quello di trasformare la drammatica guerra civile siriana in una vera e propria guerra a livello regionale, con Stati Uniti e Russia schierati su fronti opposti. Un caos che metterebbe a repentaglio anche la lotta contro l’Isis, con Washington e Mosca che finora, seppur tra mille divisioni, hanno agito insieme contro i jihadisti in Siria
L’accelerazione americana arriva a oltre due giorni dall’attacco chimico sulla provincia nordoccidentale di Idlib e nelle stesse ore in cui il Consiglio di sicurezza dell’Onu non è ancora riuscito a votare una risoluzione di condanna. “Confidiamo in un voto oggi”, ha detto un portavoce della missione Usa presso l’Onu. Martedì sera Stati Uniti, Francia e Regno Unito avevano fatto circolare una bozza che però ha incontrato la ferma opposizione della Russia, che difende a tutto campo Bashar Assad nonostante il timido tentativo di distinguo del portavoce di Putin (“Il nostro sostegno ad Assad non è incondizionato”). Angela Merkel, dal canto suo, ha definito uno scandalo il fatto che il Consiglio Onu non abbia ancora approvato nulla: il rischio, del resto, è che se si continua a ritardare il voto, l’azione perderà ogni forza. In questo impasse si è inserita la Turchia. “Con le armi chimiche, quell’assassino di Assad ha ucciso 150 civili. Allah li vendicherà. Anche noi faremo la nostra parte” ha detto durante un comizio il presidente Erdogan, indicando un bilancio di vittime dell’attacco su Idlib quasi doppio rispetto a quello accertato finora. Non solo. Secondo Ankara, le autopsie condotte sulle vittime dell’attacco hanno dimostrato che sono state usate armi chimiche (31 delle vittime sono state portate in Turchia per essere curate): i risultati saranno fatto analizzare in laboratorio all’Aia.
Accuse che non scalfiscono l’appoggio della Russia a Damasco, come ribadito ulteriormente in queste ore da Putin. Che fa un ragionamento semplice: prima di lanciare accuse bisogna compiere un’indagine imparziale. È “inammissibile” che si lancino “accuse infondate contro qualunque parte” senza condurre “un’indagine internazionale dettagliata e imparziale”, ha detto il leader del Cremlino in un colloquio telefonico con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Un interlocutore scelto non a caso. In mattinata, infatti, il ministro della Difesa di Israele, Avigdor Lieberman, aveva dichiarato al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth che “i due micidiali attacchi con armi chimiche contro i civili nell’area di Idlib in Siria e all’ospedale locale sono stati compiuti su ordine diretto e premeditato del presidente siriano Bashar Assad con gli aerei siriani. Lo dico con certezza al 100 per cento”.
Una certezza a cui crede anche Donald Trump, che oggi ha fatto trapelare la sussistenza di un’opzione militare, ma già ieri aveva alzato – e non di poco – i toni contro Assad. Il tycoon ha parlato di “affronto all’umanità” e puntato il dito direttamente contro Damasco, dicendo che con l’attacco chimico di martedì sono state superate “molte linee rosse”. “Quello che ho visto ieri su bambini e neonati ha avuto un grande impatto su di me e ha cambiato il mio atteggiamento verso la Siria e Assad. Quello che è successo ieri è inaccettabile” ha detto il 5 aprile il capo della Casa Bianca. Alle sue parole sono seguite quelle del vicepresidente Mike Pence, che ha ribadito che “tutte le prove indicano il regime di Assad” come responsabile dell’attacco: “Condanniamo questo attacco chimico nei termini più forti possibili, non può essere tollerato. Ora tutte le opzioni sono sul tavolo”. O anche più in là, stando alle ricostruzioni dei media americani. L’attacco chimico di Khan Sheikhoun, il cui ultimo bilancio fornito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani è di 86 morti (fra cui 30 bambini e 20 donne), del resto, mette dunque Trump davanti allo stesso dilemma di fronte al quale si era trovato il suo predecessore Barack Obama: se sfidare apertamente Mosca e rischiare un coinvolgimento sostanziale nella guerra, provando a punire Assad per l’uso di armi chimiche, o accettare che Assad resti al potere, a rischio però di apparire debole. Lo stesso Trump aveva accusato Obama di essere stato debole nel 2013: allora, dopo l’attacco chimico del 21 agosto del 2013 a Ghouta, alle porte di Damasco, Obama evocò il superamento di una linea rossa paventando un intervento Usa; ma alla fine l’intervento non ci fu, perché venne raggiunto un accordo sponsorizzato da Usa e Russia in base al quale Damasco ha accettato di unirsi alla Convenzione internazionale per le armi chimiche (che ne vieta, produzione, stoccaggio e uso), acconsentendo a consegnare il suo arsenale di armi chimiche affinché venisse distrutto. Trump sa che si trova davanti allo stesso bivio di Obama, tanto che ieri l’ambasciatrice Onu presso le Nazioni unite, Nikki Haley, ha ipotizzato che si possa agire da soli: quando le Nazioni unite non riescono ad agire collettivamente, ha detto, allora gli Stati sono “costretti a intraprendere azioni proprie”.
Nei cassetti del Pentagono, del resto, fin dai tempi di Obama ci sono piani che prevedono ogni tipo di intervento militare americano in Siria. Anche quello di bombardare i siti dove si ritiene Assad possa produrre e nascondere il suo arsenale chimico. Ora alcune di queste opzioni sono state rispolverate e indirizzate direttamente sulla scrivania dello Studio Ovale per l’ok del commander in chief. Del resto, soprattutto dal fronte repubblicano, salgono le pressioni per un’azione militare. E in una dichiarazione congiunta i senatori John McCain e Lindsay Graham chiedono esplicitamente l’intervento di una forza internazionale per colpire l’aviazione di Assad ed evitare così nuovi raid tossici dal cielo. La portaerei Uss George H.W.Bush è già nel Golfo Persico pronta ad entrare in azione.