C’è un’altra morte nell’inchiesta sulla presunta truffa riguardante la blindatura – più leggera (e meno cara) di quella pattuita – dei veicoli civili destinati ai militari di vertice e alle personalità in visita al contingente militare italiano in Afghanistan. Un colonnello di 50 anni, originario di Foggia, è stato trovato senza vita in un ufficio del Comando Truppe alpine di Bolzano, dove prestava servizio. Secondo l’ipotesi più accreditata si sarebbe impiccato.
Il colonnello è uno dei sei ufficiali indagati nell’inchiesta della procura militare di Roma che prese le mosse da un’altra morte: quella del capitano Marco Callegaro, 37 anni, originario della provincia di Rovigo ma residente a Bologna, moglie e due figli. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 2010 venne trovato senza vita nel suo ufficio all’aeroporto di Kabul, ucciso da un colpo di pistola. Anche questo fatto è stato archiviato come suicidio, ma i familiari e gli amici non ci credono. A loro avviso la morte è in qualche modo da ricondurre a quello che Marco sapeva, alla truffa che aveva scoperto. Sulla fine del colonnello pugliese c’è il riserbo del Comando delle truppe alpine. Sembra che a dare l’allarme sia stata la moglie, non avendolo visto rincasare. Non sembrano esserci dubbi che si sia suicidato, ma non si conoscono le cause: non si sa, in particolare, se vi sia qualche collegamento con la vicenda giudiziaria in cui è rimasto coinvolto. L’udienza preliminare per decidere sul rinvio a giudizio è fissata per il 20 aprile.
L’inchiesta prese le mosse proprio dalla morte del capitano Callegaro, avvenuta poco dopo il suo ritorno a Kabul da una licenza in Italia. “Ho sempre immaginato – ha più volte ripetuto il padre Marino – che ci fosse qualcosa sotto perché mio figlio mi aveva detto per telefono e per iscritto che stavano facendo qualcosa che non andava. Truffe, inutile girarci attorno”. E l’ avvocato della famiglia pone l’attenzione su un appunto scritto dal capitano sulla sua agenda, il 18 luglio 2010, una settimana prima di morire: “rivisto alcune cose, presa coscienza”. “Presa coscienza di che?”, si chiede il legale.
Sta di fatto che le indagini avviate dopo la morte di Callegaro hanno portato alla luce un presunto giro truffaldino, messo in atto da alcuni ufficiali, finalizzato a far risparmiare illecitamente la ditta afgana noleggiatrice dei blindati. Un risparmio tutto sommato contenuto, stimato in circa 35mila euro, ma che sarebbe potuto costare caro a chi viaggiava su quei mezzi, meno resistenti in caso di attentato. L’intera pratica incriminata – corredata da un certificato di blindatura contraffatto – venne curata dagli uffici amministrativi di Kabul dove Callegaro lavorava. “Lui con il carattere che aveva – ha spiegato il padre – non voleva sorvolare su queste cose, a differenza di come gli avevo consigliato io. Gli dicevo ‘Se gli altri capo cellula fanno i pagamenti falli anche tu, che poi torni a casa’. Lui rispondeva di no e ripeteva che voleva far risparmiare soldi all’Italia. Ho sempre avuto il dubbio che il suicidio fosse una messa in scena da parte di qualcuno che aveva qualcosa da nascondere”.
Nel corso delle indagini della procura militare di Roma sono state sentite centinaia di persone, disposte consulenze informatiche e balistiche, sequestrati 28 veicoli civili blindati, esaminati così tanti documenti da riempire ben quattro container, portati da Herat a Roma. Al termine è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso in truffa militare pluriaggravata, un reato del codice penale militare di pace. Il quale però non prevede altri reati che, secondo gli inquirenti, potrebbero forse meglio descrivere i fatti avvenuti: a cominciare dalla eventuale corruzione degli ufficiali coinvolti, la cui condotta illecita sarebbe altrimenti senza apparente movente. Su questo fronte, così come sulle circostanze della morte di Callegaro, la competenza è della procura ordinaria.