di Claudia De Martino (Centro Studi Unimed)
Il 4 aprile in Siria si è avuto un ennesimo attacco chimico che ha provocato 86 morti, tra cui circa 30 bambini intossicati ancora nel sonno nel loro villaggio di Khan Sheikhun, a sud della città di Idlib.
L’Ansa ricorda trattarsi dell’ultimo attacco di una lunga serie, di cui il più terribile fu nell’estate del 2013 nella Ghuta orientale con 1.400 vittime del gas sarin, solo in quell’occasione rilasciato da missili terra-terra invece che, come questa volta, da bombardamenti aerei. Il sarin è utilizzato per provocare perdite massime al termine di dolori terribili. Si tratta, dunque, di un’arma letale che non lascia alcuna possibilità di fuga.
Perché tale accanimento contro un piccolo villaggio come Khan Sheikhun?
Il quotidiano Al Monitor rivela che il villaggio era già stato ripetutamente bombardato dalla coalizione pro-regime, dall’aviazione russa, ma anche dagli aerei della coalizione anti-Isis statunitense perché ospitava la roccaforte di due temibili gruppi jihadisti – Jeysh al-Fatah e il Fronte Fatah al-Sham-, uniti nell’alleanza anti-Assad.
La posizione del villaggio è rilevante perché collocata lungo una delle maggiori vie di comunicazione della cosiddetta “Siria utile” o “Assadistan”, com’è stata ribattezzata la parte di territorio che il regime sta tentando di riconquistare. La notizia assume più senso se contestualizzata all’interno dell’offensiva che le forze pro-regime stanno compiendo per assicurare al proprio controllo una serie di “sacche di resistenza” ribelli. Tuttavia, il governo Assad nega di aver utilizzato armi chimiche e rilancia, denunciando di non possederne dal almeno quattro anni, ovvero da quando il regime ne affidò lo smantellamento alla Russia con l’accordo del 2013.
Anche la Federazione russa nega che si tratti di un attacco del regime, sottolineando che in questa fase l’utilizzo di armi chimiche possa risultare controproducente al rilancio del processo di pace “Ginevra III” in corso in questi mesi. Chi ha utilizzato tali armi, tuona Putin, era interessato a scardinare tale processo e deligittimare Assad proprio nel momento in cui gli Usa avevano assicurato di non puntare più alla rimozione del Presidente siriano. Il governo russo considera, dunque, possibile si sia trattato di un incidente: ovvero di un bombardamento che è andato accidentalmente a colpire un deposito di armi chimiche non ancora smantellato detenuto dai ribelli o caduto in mano agli stessi dopo la conquista del villaggio. L’argomento che solo il governo Assad potesse possedere armi chimiche e le forze ribelli no, è stato sconfessato in vari rapporti dell’intelligence Usa, che sostengono che al-Nusra ed altre formazioni ribelli li abbiano già impiegati in varie occasioni.
Tim Anderson, un ricercatore di politica economica presso l’Università di Sidney e autore di “La sporca guerra contro la Siria. Washington, regimi e resistenza”, sostiene che nel caso precedente, l’attacco chimico del 2013 nella regione del Ghouta vicino a Damasco, il timing del bombardamento chimico da parte di Assad sarebbe stato particolarmente sbagliato, dato che era avvenuto in presenza degli ispettori della missione Onu a Damasco su invito del regime. Qualcosa di simile a quanto avvenuto ora, in una fase in cui il regime ha riguadagnato sia terreno che credito, in particolare presso le cancellerie occidentali. Le forze ribelli, incluse quelle jihadiste, avrebbero dunque tutto l’interesse a screditare il regime, in modo da sollecitare un intervento militare dell’appena insediato presidente Trump, che fino a oggi era apparso fin troppo conciliante nelle sue posizioni sul regime.
In questo, come in altri casi, quando si leggono notizie come attacchi ad alto potenziale di destabilizzazione come quello chimico avvenuto pochi giorni fa, è necessario contestualizzare l’informazione, chiedendosi in primis a chi possa beneficiare e, in secundis, verso quali scenari possa condurre.
Nessuna possibilità è esclusa e depennabile dalla lista a priori: il regime potrebbe aver deciso di imprimere un’accelerazione alla sua operazione di “pulizia” degli oppositori, dimostrando, come già avvenuto in passato, il suo totale disprezzo per la vita umana e per quella dei suoi cittadini in particolare: avrebbe così adoperato il gas per liberare più velocemente una piccola sacca di resistenza ribelle in una zona sensibile, capitalizzando sulla protezione diplomatica della Russia.
Oppure alcune formazioni ribelli, appoggiate o comandate a distanza da Stati sunniti potenti della regione come Arabia Saudita, Qatar e Turchia, avrebbero potuto condurre l’attacco o metterlo in scena per poi attribuire la responsabilità al regime, con l’obiettivo dichiarato di spingere il nuovo governo Usa a un coinvolgimento militare diretto in Siria e alla sospensione dei colloqui di pace.
Non ci sono elementi certi in questo come in altri episodi analoghi le cui esatte fonti di informazione e dati è difficile accertare, quello che è sicuro è che, per evitare il rischio di manipolazioni dall’una o dall’altra parte, è necessario come società civile chiedere a gran voce che venga istituita una commissione d’inchiesta Onu il più possibile imparziale, capace di mandare i suoi ispettori sul campo, e di accertare il più verosimilmente possibile la natura e la composizione degli agenti chimici utilizzati e l’eventuale responsabilità dell’attacco.
Poi, solo sulla base dei suoi risultati, sarà possibile approdare a un’idea più certa di cosa stia accadendo in Siria e come intervenire, sperando che la risposta univoca non sia solo e sempre un altro bombardamento presumibilmente “umanitario” occidentale, come quello operato dal Presidente Trump la scorsa notte – in realtà, nient’altro che una rappresaglia simbolica e autocelebrativa – ma il tentativo di raggiungere davvero un difficile compromesso tra le parti, sostanzialmente ingiusto come lo sono sempre gli accordi politici, che sappia però mettere fine a sei anni di sanguinoso conflitto.